La solitudine e la depressione dell’ispettore Michelin
di Fabrizio Scarpato
Dopo tre giorni i fiori chinano la testa e appassiscono.
Li ho sostituiti con altri freschi, sempre tre, ma la signorina Paulette non è più passata a sentirne il profumo. Ammetto di essermi scoperto a guardare fuori dalla finestra al minimo fruscìo. Mi sono ostinato ad aspettare, insieme ai miei crisantemi colorati. I pensieri e i sussulti in questi casi mi fanno compagnia, l’attesa e l’immaginazione mi son sempre apparsi più vitali rispetto all’essere informato di dettagli insignificanti. I dettagli me li srotolo nella testa, ammantandoli di incertezza: preferisco la storia alla cronaca. Per questo non uso il telefono, per questo non le ho telefonato. Anche per paura, certo. Ma dopo un paio di settimane l’ho acceso: nessun messaggio, nessuna chiamata. Era meglio continuare coi fiori, che peraltro si devono essere offesi, perché hanno cessato di fiorire, dipingendo di grigio il mio giardino, con un certo anticipo, con una certa preveggente permalosità.
Ho intrapreso un mio personale itinerario lungo le strade del sidro, fermandomi a caso nei paesi, uno dopo l’altro, un bicchiere dietro l’altro. Dapprima mi accompagnavo coi formaggi, ma a parte un discreto Livarot, è bastato poco a scassarmi i camemberts. Sono andato a dissolvermi verso occidente alzando via via il tiro. Attraversato l’Orne, nel bicchiere era ammesso solo Calvados. Dopo vasti campi coltivati, ho solcato foreste fitte che facevano muro ai lati della strada, diritta fino all’infinito: una riga gialla sinuosa tra discese e risalite. Al tramonto la strada s’è fatta più stretta, i paesi confusi e nascosti, la campagna meno ordinata, buia come un labirinto. Mi sono fermato e ho dormito. Alle prime luci dell’alba ero quasi in bilico sulla falesia di Omaha Beach, di fronte al cimitero di Colleville sur Mer: ho guardato, ho letto, mi sono sentito una merda e sono tornato indietro.
Il sole era già abbastanza alto per riscaldare il Vieux Bassin. Cammino a occhi chiusi, a cercare il tepore con la faccia, quasi leggero e grato per un istante di vuoto, un momento imprevisto nel mio tempo confuso e senza ore. “Signor Gustave”. E’ Gerard, il pescatore di Annette: “Signor Gustave, vuole favorire?”. Signore, Gustave, favorire: ma come cazzo parla questo. Stava preparando un bel piatto di crevettes appena pescate, a crudo, con un filo d’olio e fette di pane appena sfornato dalla boulangerie dietro l’angolo, da spalmare con l’oro di una forma di burro d’Isigny.
Ci sapeva fare e mi racconta della barca, della pesca, di Annette, del desiderio di metter su un brasserie di pesce, il suo pesce, quello che capita ogni mattina. Parlava solo lui, io non avevo ancora aperto bocca, impegnato com’ero a spalmare il burro sul pane. Poi, come per ripicca verso quello schiaffo di speranza, quasi a sporcargli il quadretto come fanno i compagni di banco stronzi, con la voce rauca dell’insonne, sibilo ” E io?”. Lui sorride, di quei sorrisi aperti e sinceri “Lei viene a mangiare, quando le pare”. Paraculo che non sei altro. Assesto il colpo della domenica, per disperazione “Mmm… c’è nostra madre, non so…” Nessun problema, risponde, ogni tanto una trippa e un agnello ci possono stare, per di più ora sua madre è libera, visto che il priore Paul se n’è andato. In altri tempi la notizia della sparizione di Paul il priore mi avrebbe fatto scapicollare. Ma in quel momento pensavo alle freccette.
Nel mio lavoro insegnano a essere precisi e accurati, cioè esser sicuri di non sparare cazzate. Se la vita fosse un bersaglio le nostre opportunità sarebbero come freccette da lanciare, appunto con precisione e accuratezza. Si possono tirare freccette sparpagliate, oppure tutte sullo stesso punto, e questo stabilisce la differenza tra un tipo impreciso e uno affidabile. Ma se il centro corrispondesse alla verità, sarebbe bene che il gruppo di freccette, belle precise, si conficcassero tutte intorno o in prossimità del centro, così che il tiratore possa ritenersi accurato, perspicace, vicino al vero. Ascoltando Gerard riflettevo come io sia di fatto un buon lanciatore di freccette, preciso e riproducibile, ma, cristo, ho il difetto di tirarle tutte lontane dal centro, distanti dalla verità. Ci deve essere una specie di vizio tecnico se alla fine sono qui, solo, che parlo coi crisantemi e con una gigantografia di Chabal. Forse anche con Paulette ho tirato la freccetta lontana dal centro. Come tutte le altre, come sempre: preciso e inaccurato.
Anche Routtier è un preciso rompicoglioni. Il ragazzo di Cap Fréhel sta meglio, i medici e il giudice hanno acconsentito al suo ritorno a casa, dove resterà a disposizione per poco tempo, anche perché non c’è nulla a suo carico: insomma, essendo roba mia, lo devo andare a prendere e poi consegnarlo ai nostri colleghi del suo paese, al sud, dalle parti di Gordes, nel Luberon. Che culo.
Si chiama Carlos, è di origini argentine. Bello, non c’è dubbio, di una bellezza sfacciata e sconfortante: ricorda Alain Delon in quel film di René Clément, languido e corvino, solo un filo più fragile, forse impaurito. Lo porto via, anche per salvarlo da infermiere con evidenti bollori da ipersecrezione ormonale. Non ha voglia di parlare e per tutto il viaggio guarda fuori dal finestrino: ma io ho tempo, tutto il tempo di cui ho bisogno per non pensare, per non bere, per allontanarmi da qui. Non è esattamente un musicista, anche se sa suonare il bandoneon, quasi per obbligo nei confronti del padre che venerava Astor Piazzolla: ha comunque a che fare col tango perché è ballerino, professionista. Ballare è la sua vita, il suo progetto, la sua promessa. A occhio e croce ancora parecchio lontana.
Domani partiremo per il Midi, ma dividendoci qualche avanzo di trippa che mia madre, ormai in preda all’arteriosclerosi, s’era dimenticata di prepararci a dovere, ho provato a domandargli perché. “Perché col mio lavoro ho conosciuto una donna che mi ha fregato, derubandomi del denaro che avevo. Denaro non mio, ma di mia sorella, che s’è fatta in quattro per me. Mi sono vergognato”. Non mi diceva tutto, era chiaro. “E che mestiere fai?”: “Il taxi dancer”. Poteva bastare, anche perché alle parole taxi dancer ho avuto un violento attacco di orticaria e un vorticoso giramento di palle prontamente smorzato da un goccio di Calvados.
Siamo rimasti in tre, tre somari e tre briganti, sulla strada di Girgenti… Non ho idea di dove cavolo si trovi Girgenti, ma la canzone la cantava mia madre, a me e a Annette, quando mio padre se ne andò. Era di un cantante italiano molto famoso e molto bravino: peccato avesse i baffetti come Lievremont. L’ispettore depresso, il mancato suicida e il rugbista sulla via del tramonto: tre somari, ed è evidente che da qualche parte ci deve essere pure un numero ancora imprecisato di briganti. Carlos vede la foto di Chabal : “Le piace il rugby? Anche a me, tifo Argentina. C’ho giocato, mediano d’apertura, ma non faceva per me. Il mio idolo, comunque, è Felipe Contepomi”. Questo ragazzo mi sta simpatico. Lo faccio accomodare nella cella numero uno, può darsi che Sébastien lo aiuti a trovar le parole che ancora non sa dire. Io mi sdraio sulla branda della due: ho un’angoscia che mi sbrana il cuore e un paio di bottiglie di quello buono da finire.
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