La Pasqua delle mazzarelle teramane, i maccheroni con le pallotte
di Cristina Mosca
Arriva Pasqua e in Abruzzo, nella provincia di Teramo in particolare, arriva lo “sdijune”. Per i nostri nonni, dopo gli originari quaranta giorni di sobrietà e di penitenza, infatti, con il termine della Quaresima terminava finalmente anche il digiuno, più o meno forzato, dal momento che nei periodi di più profonda di povertà non avevano molta scelta.
Ecco che tradizionalmente al menu di Pasqua corrispondeva, e corrisponde ancora oggi, una rutilante varietà di portate. È come se si tirasse un sospiro di sollievo e si dicesse: eccoci usciti dal periodo di sobrietà, ed ecco riappropriarci della cultura dell’accoglienza e dell’abbondanza.
Il menu della Pasqua abruzzese ruota intorno all’agnello, simbolo anche del sacrificio dell’”agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”, eco di quel sangue di agnello che permise ai primogeniti ebrei di scampare all’ultima delle dieci piaghe d’Egitto.
Quindi tra timballo di scrippelle, coratella d’agnello, maccheroni alla chitarra con le pallottine (da non confondere, come precisato dal professore Leonardo Seghetti, con i maccheroncini o capelli d’angelo della marchigiana Campofilone, o con i maccheroni carrati di Loreto aprutino, in provincia di Pescara) e lo spezzatino di agnello “cace e ova” (formaggio e uova), sulla tavola di Teramo atterrano anche le mazzarelle.
Le mazzarelle, come il ristoratore Paolo Pompa del ristorante “Il Cantinone” ha spiegato ad Antonio Paolini e Roberto De Viti per la bella pubblicazione della Camera di Commercio di Teramo “Teramo – Il linguaggio di sapori”, potrebbero dovere il loro nome al napoletano “mazzè”, che fa riferimento alla parte finale dell’intestino dell’animale. In sostanza si tratta di veri e propri tributi all’agnello: involtini di interiora (coratella) in foglie di indivia o lattuga e legate con le budella. Cuore, polmoni e fegato vengono tagliati a listarelle e conditi con quello che più contraddistingue la cucina teramana, ossia gli “odori”: erba cipollina, aglio fresco, prezzemolo, maggiorana e sale e pepe.
Il presidente dell’Art (Associazione ristoratori teramani dentro le mura) e cantiniere de La Cantina di Porta Romana Marcello Schillaci individua negli orti casalinghi l’origine della cucina del capoluogo teramano, e da qui spiega la sua forte caratterizzazione negli “odori”. In virtù di questo ribadisce anche che la ricetta delle mazzarelle prevede, dopo il passaggio in tegame e la sfumatura in vino bianco e in acqua (“passaggio” che è invece il punto di arrivo per le mazzarelle servite in bianco), l’aggiunta di conserva di pomodoro da far riassorbire, poi, in forno. «Le mazzarelle teramane devono essere rosse – ribadisce – perché “s’ha dà mbònne (inzuppare, ndt) sempre ‘na freca di pane”». Vox populi, vox dei.
2 Commenti
I commenti sono chiusi.
dire ….. una persona fantastica… Grazie Marcello che esisti in un mondo pieno di egoismo e tanti tanti stronzi….grande persona pieno di spirito positivo e bravo cuciniere….bravo cuoco.. bravo oste….
Le “Mazzarelle”; a casa nostra esattamente come descritto ma senza pomodoro e naturalmente con l’immancabile maggiorana; da berci un Trebbiano Teramano (Passerina) maturo di qualche anno.