La Madonna delle Galline e iI rito dei carciofi arrostiti
di Carmen Autuori
Il legame tra il popolo campano ed i carciofi è così profondo da trascendere l’aspetto puramente alimentare per giungere a quello rituale. Questo ortaggio, infatti, è simbolicamente legato alla stagione della rinascita, la primavera. E’ tra i frutti più diffusi e preziosi della nostra regione; tra i tanti ricordiamo il carciofo di Paestum, quello del Tanagro, nel napoletano quello di Schito, detto anche carciofo con il cappellino perché protetto dai raggi del sole da pignatte di terracotta. Nella Valle dell’Irno famoso è quello di Montoro e nel Sannio il carciofo di Pietrelcina. Anche Procida ed Ischia ne hanno una loro varietà che matura piuttosto precocemente rispetto alle altre.
Come dicevamo, l’aspetto rituale del carciofo emerge in tutte le sue sfaccettature la Domenica in Albis, detta anche Ottava di Pasqua, in occasione di una delle feste più sentite (e partecipate) del popolo campano, quella della Madonne delle Galline che si svolge nelle viscere di Pagani nell’agro nocerino sarnese.
Qui la tradizione popolare non conosce l’usura del tempo. La Mamma dei paganesi occupa un posto di primo piano nel ciclo annuale delle feste dedicate alle Sette Sorelle, le Madonne ctonie, che sono la trasposizione cristiana delle dee della fertilità, soprattutto di Persefone figlia di Demetra, la fanciulla che trascorre metà dell’anno nel profondo degli Inferi e l’altra metà alla luce del sole. E proprio come una Persefone cristiana questa Madonna sarebbe affiorata dalla terra all’inizio della primavera- secondo la leggenda una Domenica in Albis all’inizio del Cinquecento – scoperta da alcune galline razzolanti. E’ noto, infatti, che proprio le galline , e in genere i volatili, fossero animali sacri alle divinità infere.
“‘A Madonna iesce ‘e nove”
quando si spalancano le porte del santuario e la statua è accolta dal cuore pulsante della sua Pagani (ma non solo) che si estrinseca con il suono delle tammorre, dai “tosellari”, dal fumo delle batterie dei fuochi pirotecnici e da quello dei carciofi arrostiti, dalle tortore, dalle galline, dai pavoni , dagli ex voto misti a canti, da una pioggia multicolore di coriandoli ricavati dagli involucri delle uova di Pasqua.
A dare ordine a tutto ciò è il suono del tamburo che accompagnerà la processione per le strade principali e per i budelli del centro storico di Pagani, tra i balconi vestiti a festa con preziose coperte e tovaglie del corredo nuziale e nei “toselli”, che sono una sorta di edicole votive – spazi sacri addobbati a festa allestiti nei cortili degli antichi palazzi- dove si canta e si balla, fino a sera quando, al calar del sole, la Vergine incontrerà la statua di Sant’Alfonso con cui scambierà i tradizionali doni, per poi tornare alla Chiesa Madre dove la statua verrà riposta fino all’alba del giorno dopo quando i tammorrari, che nel frattempo hanno suonato tutta la notte, si ritrovano e in processione si dirigono davanti al santuario chiuso che si aprirà alla “Battuta” lasciando entrare i suonatori che andranno a depositare ai piedi della Madonna i loro strumenti. E dopo aver cantato “Regina de lu cielo”, usciranno dalla chiesa senza mai dare le spalle all’altare.
Alla festa sono legate anche delle tradizioni gastronomiche immutate ed immutabili nel tempo. Per la gente di Pagani a tavola non può mancare il tortano, una sorta di pane intrecciato di forma rotonda ma senza salumi né formaggi, la fellata (salumi, formaggi, uova sode) e la “stesa della pettola” (la sfoglia) dei tagliolini.
Secondo tradizione, l’impasto va preparato già il venerdì sera in concomitanza dell’apertura del Santuario con l’uscita della Madonna. In passato la pasta si stendeva ad asciugare addirittura sui letti e, in segno di devozione, i paganesi usavano dormire a terra, in attesa del pranzo domenicale a cui si dava inizia solo dopo il passaggio in processione della statua. Tutto ciò viene anche esposto nei toselli ai piedi delle varie riproduzioni dell’immagine della Vergine in segno di offerta. E la cortina di fumo proveniente dalle “fornacelle” (una sorta di barbecue rudimentale dove sono collocati in file ordinate i carciofi) che avvolge le strade, i palazzi e la folla di fedeli che accorrono da ogni dove, ci restituisce l’idea del sacrificio che l’agro offre alla sua Mamma delle Galline bruciando, anche in segno di devozione, uno dei suoi frutti più preziosi: il carciofo.
La ricetta dei carciofi arrostiti ci è stata gentilmente donata da Giuseppe Russo del ristorante la Tammorra a Pagani.
Ingredienti
Carciofi tipo mammole
Prezzemolo
Aglio rosso
Sale
Olio evo colline salernitane Dop
Preparazione
Tagliare il gambo del carciofo non troppo sotto al fiore lasciando un paio di centimetri.
Lavare i carciofi e metterli capovolti per circa 15 minuti per fare gocciolare via tutta l’acqua. Impugnare saldamente il carciofo col gambo e batterlo con la punta delle foglie sul tavolo in modo che le stesse si allarghino.
Farcire con aglio fresco e prezzemolo, tritati al momento, cercando di arrivare fino al centro. Salare e ungere di olio con cura ogni singola foglia senza esagerare con la quantità per evitare che si infiammi al contatto con il fuoco.
Preparare una fornacella e porvi i carciofi col gambo tra i carboni. Saranno pronti, dopo circa 30-40 minuti, quando risulteranno cotti al centro e bruciacchiati nelle foglie esterne che andranno eliminate.
Ripulire con la punta di un coltello le foglie bruciate esternamente estraendo la parte centrale cotta e aggiungere olio evo.
Servire su una fetta di pane cafone che ne raccoglierà gli umori uniti all’olio e al condimento.
Una variante golosa prevede l’aggiunta al centro dei carciofi prima della cottura di un battuto di lardo oltre al prezzemolo e all’aglio. Se il lardo è salato, evitare di aggiungere altro sale.