La cucina italiana? E’ già stata raccontata da Ippolito Cavalcanti nel 1837


Il Duca Gastronomico

di Alfonso Sarno
«La gastronomia è quella scienza che più di ogni altra mostra le grandezze delle nazioni e la civilizzazione dei popoli…Or dunque, non ti sarà discaro d’aver riunito in un sol volume quanto d’altri si è detto in gastronomia o inventato da me…Amo tutti e perciò ho preferito che sia alla portata di ognuno onde facilmente ne possa profittare. Lettore mio vivi felice, sii di buon senno e buon gusto».
È questa la dedica che Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino – toscano d’origine, discendente da Guido, poeta amico di Dante, e nato ad Afragola nel 1787 – rivolge ai lettori di una delle nove edizioni pubblicate a Napoli, dal 1837 al 1865, del suo trattato “Cucina teorico-pratica”, arricchite da disegni autoriali e dalla seconda uscita, nel 1839, dall’appendice sulla “Cusina casarinola co la lengua napolitana” ovvero ricette scritte in dialetto in modo da essere comprese ed preparate anche dalle moltissime persone che non avevano dimestichezza con l’italiano.
Precursore degli odierni influencer, ispiratore dei ricettari contemporanei, abile nel mettere insieme piatti aristocratici e popolari descritti alla perfezione e con l’indicazione del costo dei vari ingredienti, è il protagonista del libro «Ippolito Cavalcanti – Il duca gastronomo», pubblicato da Rubbettino. Scritto da Enzo Monaco, presidente dell’Accademia Italiana del Peperoncino in Diamante si colloca nel PSR Calabria 2014-2020 dal titolo “Cultura popolare – Attrattore di turismi sostenibili – Santi Briganti e…2”, innovativo progetto turistico esperienziale incentrato sulla contaminazione o meglio sulla commistione/integrazione dei più diversi generi: dall’enogastronomia, appunto, all’arte ed alla musica.

Un meticciato culturale che sarebbe piaciuto all’illuminato aristocratico, a suo agio sia negli ambienti della corte borbonica che in quelli popolari e vividamente raccontato da Monaco, dai prefatori Luciano Pignataro e Piercarlo Grimaldi che nei loro scritti hanno esplicitato e delineato l’importante contributo del Cavalcanti alla storia della cucina italiana tout court e non soltanto napoletana e come la sua opera, scrive il primo «rappresenti un contributo concreto all’esatta ricostruzione storica della figura del Cavalcanti, al punto da dire che l’attuale cucina italiana è declinazione della napoletana».
Attualità ribadita da Grimaldi che nel suo contributo evidenzia come il ricettario sia espressione del mutamento dei tempi, frutto dei fermenti politici preunitari ed importante momento del processo di conoscenza gastronomica portata a compimento da Pellegrino Artusi con “La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene”, pubblicato a Firenze nel 1891.
Nell’opera del Cavalcanti c’è una maggiore suggestione ben espressa da Monaco che nei cinque capitoli racconta la vita dell’aristocratico gourmet ma anche quella dei napoletani, la genesi e le varie edizioni del trattato restituendoci intatte – anche attraverso la riproduzione delle copertine delle diverse edizioni del libro -, la filosofia di un gentiluomo di corte così avanti nei tempi da auspicare un Museo dedicato agli attrezzi di cucina e che si dedicò a tempo pieno a divulgare la cucina napoletana nella sue diverse espressioni raccontata dalle 50 ricette che chiudono il libro e realizzate da cuochi e gastronomi calabresi che le hanno, quando necessario, sapientemente rivisitate.
Alcune semplici come la minestra di riso al pomodoro, la frittata di cavolfiori, le uova in purgatorio altre più sontuose come il sartù di riso classico o con pesce, il gattò di lasagnette alla Buonvicino, altre da riscoprire come gli gnocchi di pesce, lo stenteniello arrustuto, piatto povero a base di intestino di pecora, animelle, caciocavallo o il ratafià di fiori di cedro. .

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