Tema. La critica gastronomica va sospesa durante l’emergenza Covid?
C’è una strana idea che circola nell’aria insieme al Coronavirus, ossia che non sia possibile alcuna critica sui ristoranti finchè dura questa emergenza sanitaria. Come si fa, questa è la tesi, a giudicare un ristorante che non lavora al massimo delle sue possibilità e con i camerieri che indossano le mascherine?
In effetti avevamo notato, dopo il lockdown, il silenzio tombale di molti protagonisti della critica e del giornalismo gastronomico.
Dobbiamo dire che la stessa reazione degli operatori è stata tardiva, lenta e decisamente poco flessibile. Il motivo è molto semplice: il 40% dei locali che somministrano cibo è gestito da under 35, ossia da persone nate dopo il 1985. Avevano 16 anni quando ci fu l’attacco alle Torri Gemelle e appena 24-25 durante la crisi finanziaria di Lehman Brother. In particolare la maggior parte di loro ha aperto l’impresa dopo il 2008-2009 e, soprattutto nel caso delle pizzerie e dei diversi format di somministrazione easy (hamburgherie, paninoteche, enoteche), hanno vissuto una costante ascesa nell’unico settore italiano che ha continuato a funzionare oltre al turismo e alla moda.
Questo vale anche per il funambolico mondo dell’alta ristorazione, trascinata dalle ambizioni di chi ha visto Masterchef e da Milano che macinava aperture e chiusure in un tritacarne mediatico senza soluzione di continuità.
Non avendo mai vissuto crisi epocali collettive, per esempio le domeniche a piedi degli anni ’70, non si era psicologicamente preparati alla possibilità che tutto potesse improvvisamente saltare per una causa esterna, lontana, indipendentemente dall’impegno o dall’andamento del mercato. Questo è tanto più vero per il mondo pizza che, dimentico delle sue umili origini che hanno le radici nell’asporto e nella consegna a domicilio, ossia cibo da strada per eccellenza, ha visto molti protagonisti fermarsi in attesa che si riaprisse tutto.
Molti erano intimamente convinti che si sarebbe trattato di una banale pausa di un paio di settimane e che tutto sarebbe tornato come prima. E addirittura considerano dequalificante l’idea di doversi adattare al delivery. “Io maestro di pizza mi metto a fare l’asporto?”.
A questo proposito amo citare questo articolo a cui sono particolarmente affezionato perchè lo considero uno spartiacque tra passato e presente.
Rileggere oggi le critiche di taluni a questo pezzo fa sorridere per la ingenuità, l’incapacità di capire il momento di chi fino a due anni fa manco stava sulla scena, la prosopoea di chi è convinto che nulla cambi, l’ignoranza delle dinamiche della vita reale.
In sostanza cosa sostenevo?
1-Anzitutto torna al primo posto il vero motivo per cui esiste la ristorazione pubblica: essere un servizio. Allora questa fascia di osterie, trattorie, pizzerie, paninoteche devono solo attrezzarsi di fronte alla novità. E addirittura la crisi può diventare una opportunità se ci si riesce ad organizzare bene con l’asporto e la consegna a domicilio (in milanese si dice delivery). …
Ed è esattamente quello che è successo: riparte la ristorazione di servizio e molti hanno inventato nuove formule o sono dovuti ricorrere al delivery e all’asporto per sopravvivere durante i due mesi di lockdown. E’ cresciuta la comunicazione sul web e adesso si è consapevoli che la sala è solo uno degli aspetti dell’attività ristorativa. All’elenco dei cibi aggiungerei solo la cucina nipponica che si è mostrata particolarmente adatta al trasporto a domicilio.
Scrivevo poi ancora.
2- Questa crisi, che sarà lunga, pone fine ai sogni di gloria della ristorazione d’avanguardia che non è attrezzata per questi servizi. Quegli chef che pensano di essere artisti, quelli che “si devono esprimere”, quelli che “io faccio Angus e Wagyu e non la pasta perché sono troppo bravo per abbassarmi al cliente” possono appendere la giacca al chiodo e magari passare in sala… Solamente i veri maestri, quelli che non hanno perso di vista il sentimento della gente ne usciranno più grandi. E’ finita perché il vecchio modo di fare le guide, che ha accompagnato la trionfale cavalcata degli anni ’90 era già finito di fatto. Lo aveva capito Bonilli nel lontano 2004 quando fondò Papero Giallo, lo ha capito bene solo la Michelin. Ci ha marciato la 50BestRestaurant.
I fatti hanno perfettamente confermato anche questa previsione. Al momento in cui scrivo, sono aperti solo quattro tristellati italiani su 11. Nella prima settimana di apertura solo il 16,5% degli stellati ha avuto la forza di aprile, il 27% nella seconda. Ora, non suona un po’ strano che la parte ritenuta unanimente al top della ristorazione sia anche la più fragile come modello di sostenibilità di business di fronte alla emergenza? Ci si dovrebbe interrogare, come ha fatto recentemente Gwendal Poullennec, su nuove formule e nuovi modelli. Come sempre accade, le crisi accelerano i processi che sono spesso già in atto.
Non c’è bisogno di aggiungere niente se vediamo quello che sta succedendo.
Ma ritorniamo su una frase che avevo scritto e che ricopio: E’ finita perché il vecchio modo di fare le guide, che ha accompagnato la trionfale cavalcata degli anni ’90 era già finito di fatto.
Ora proprio Gwendal Poullennec, che con la Michelin più di ogni altro riesce a fare mercato, è stato molto chiaro recentemente in una intervista al Corriere schiaffata come sotto in una pagina di Cronaca.
“I ristoranti devono e dovranno adattarsi. Potranno semplificare il servizio, ma non comprometteranno la qualità, gli chef non perderanno le loro doti. Anzi, saranno più creativi che mai. Probabilmente ci saranno meno menu alla carta e più degustazioni, più semplici da gestire in cucina. E ci saranno anche ristoranti stellati che faranno take away o delivery: cambierà il modello di business, soprattutto all’inizio. Noi saremo flessibili. Già adesso in alcuni Paesi ci sono ristoranti stellati che sono di fatto degli street food”.
La sostanza di queste parole è molto semplice: non esiste un modello di ristorazione astratto a cui la realtà si debba agganciare per poterne iniziare a parlare. La critica, il giornalismo, racconta quello che succede perchè le imprese intanto provano ad aprire e certamente non è che non si può parlare di loro perchè altri non hanno la forza o la volontà di farlo. Saranno loro, appunto, ad essere fuori dalla narrazione e dai giudizi.
La gente torna a mangiare e a sedersi al ristorante. La vita continua.
Non c’è dunque alcun motivo per cui la critica si debba zittire in attesa di un ritorno alla normalità auspicabile ma alquanto fumoso.
Nessuno. Se non la propria stessa sostenibilità economica: se una guida vende poche copie e si regge soprattutto sul vetusto e noioso evento di presentazione per fare sponsor, allora giusto rinviare se non proprio soprassedere. Ma senza dare lezioncine a chi nel frattempo sta lavorando perchè il proprio editore ci crede e non vuole perdere la battuta annuale.
Dire come si fa a giudicare un ristorante se non è al massimo significa non capire che i ristoranti nel loro complesso potranno tornare, forse, e chissà quanti, allo statu quo ante Covid tra non meno di due anni visto che la domanda turistica è tornata al 1978 e che i consumi del 2020 saranno uguali a quelli di vent’anni fa nella migliore delle ipotesi.
E allora, cosa facciamo? Stiamo fermi sino a quando torna il modello di ristorazione che abbiamo in testa e che già di suo stava in crisi pesante viste le sale vuote e il fatto che le spese del gourmet spesso erano pagate da sponsor, consulenze, eventi e altro?
Sono scelte, ripeto legittime a seconda del proprio modello di business.
Ma risparmiateci le lezionicine.
Anzi, almeno evitate di sparare le vostre palle a chi sa benissimo, forse meglio di voi stessi, le cose come stanno a casa vostra.
Un commento
I commenti sono chiusi.
Il problema è che una CRITICA GASTRONOMICA non esiste in Italia.