La cena da Alice. Il bianco e il rosso: Chassagne-Montrachet 2004 Joseph Drouhin e il Valtellina Superiore Sassella Rocce Rosse Riserva 1997 di Ar.Pe.Pe.


Ristorante Alice

 di Alessandro Marra

Metti una sera a cena tre terroni, da Alice a Milano. Due bottiglie al tavolo, scelte da una carta in fin dei conti ben ragionata, con ricarichi assolutamente ragionevoli, magari appena striminzita guardando alla Francia.

Scegliamo un bianco francese e un rosso italiano – possiamo averli tutti e due al tavolo? Ci piace così. Subito accontentati. Seguiamo così, tra un piatto e l’altro, l’evoluzione nel calice di entrambi i vini. E li beviamo, certo: lo Chassagne-Montrachet 2004 del négociant Joseph Drouhin e il Valtellina Superiore Sassella Rocce Rosse Riserva 1997 di Ar.Pe.Pe.

Chassagne Montrachet


 Il primo sorso è per il francese. Di bello ha sicuramente il colore: un giallo paglierino anche piuttosto intenso, che già lo scorrere lento nel calice preannuncia forme sinuose e opulenza. Opulenza, però, che non è mai pesantezza, altroché. Perché la vera forza di questo bianco d’oltralpe non sta, comunque, nella (pur) indiscutibile finezza dei profumi o nell’ampiezza del bouquet, che – peraltro – paga forse qualche lieve interferenza dei legni (magari sapessimo usarli così, i legni, noi italiani… sui bianchi in genere, dico). Sta, piuttosto, nella leggiadria del sorso: ricco e al tempo stesso agile, scattante, confortato dall’acidità (leggi freschezza) e dalla travolgente mineralità. Che poi, detto in due parole, è il motivo per cui eravamo sempre lì a chiederne dell’altro. Chardonnay in purezza della Côte de Beaune che profuma di mela matura, mandorla e miele. Quello base, per intenderci.

Sassella Rocce Rosse 1997

 E poi lui, il valtellinese. Così buono che per una volta – anche se è un rosso e, quindi, il paragone non è proprio azzeccato – senti risuonare l’inno di Mameli e non la marsigliese. Il colore dell’abito racconta gli anni trascorsi tra cemento, acciaio, botti grandi e bottiglia prima di finire sullo scaffale (soltanto un paio d’anni fa): un granato luminoso, che si fa via via più sfumato lungo le pareti del calice. A dirla tutta, del ragazzino non ha proprio nulla più o quasi, se non quel ricordo sfocato di confettura di piccoli frutti rossi (ribes, direi). Di animo gentile, solo apparentemente in contrasto con il timbro selvatico e “animale” dei profumi: la rosa selvatica e il tartufo nero, la scorzetta d’arancia essiccata e il terriccio. E poi quella fascinosa nota metallica, quasi rugginosa, sempre sullo sfondo a rievocare il rosso delle rocce dei terrazzamenti della Sassella, nobile cuore della Valtellina. Anche in questo caso, grande bevibilità, con la freschezza ancora presente e quella piacevolissima punta sapida che da’ ritmo alla beva: alcol misurato e mai invadente, tannino setoso. Il pezzo forte? La spiccata territorialità di un rosso che come pochi sa farsi interprete di una tradizione secolare di viticoltura eroica.

 Diversi, dunque: a tratti più esuberante, se vogliamo, il francesino; più composto, invece, il padanotto. Ma belli, tutti e due. Da vedere e da bere.

2 Commenti

  1. Indubbiamente due gran bei vini. E la prova è sempre il bicchiere che rimane vuoto. Comune denominatore premiante, una non banale mineralità che si declina dalla rocciosità marina del sottosulo nell’uno, e nella metallicità che il nome stesso dell’altro ci riorda. (E bella descrizione degli assaggi)

  2. Solo un P.S. caro Alessandro: “padanotto” per un vino che nasce arroccato su sulle rocce della Valtellina non se po’ vède!
    Lui i fantasmi dell’inesistente Padania li guarda dell’alto in basso, accarezzando il cielo.

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