La carbonara alla panna di Cesare al Casaletto e la critica burrosa
Questo post di Marco Lungo su Cesare al Casaletto, senza un solo tag, ha scatenato una discussione vecchi tempi (nemmeno tanto vecchi poi, ma il web brucia tutto in fretta) raccogliendo visualizzazioni e commenti che, come al solito, è andata oltre il merito ma che però ha provocato numerosi interventi di protagonisti (da una parte al’altra del bancone) del mondo gastronomico romano.
Il post ha fatto scalpore perché a scriverlo non è stato un recensore anonimo su Tripadvisor e Cesare al Casaletto è uno dei luoghi di cult, chiocciola Slow Food. Anche noi con le recensioni di Virginia Di Falco, realizzate in perfetto anonimato e pagando il conto, ne abbiamo parlato bene e con simpatia.
Ma la questione vera non è la carbonara con la panna di Cesare al Casaletto che dopo questo post sarà uno dei piatti più venduti a Roma (così funziona in Italia), ma la frase: “Non mi piace il modo tanto diffuso di parlare solo bene e non parlare mai male dei locali”.
Mi sono chiesto: le cose stanno così? La risposta, nella maggior parte dei casi, è sì, sostanzialmente è così. Direi che è sempre più così.
Proprio da questo atteggiamento nascono due fenomeni a contraltare: il successo di Tripadvisor nonostante le storture più volte denunciate, ma che si stanno affinando nel tempo, nel quale alla fine con una certa capacità di navigazione tra i commenti e i fake, si ottiene un quadro esatto del locale. L’altro fenomeno è la caricatura alla Visintin che può essere divertente da leggere ma certo non affidabile dal punto di vista gastronomico. Oppure la strada scelta dalla Stampa di Torino.
Qui il gioco nato dalla mente geniale di qualche caporedattore del plin è il tipico segnale di decadenza dei media tradizionali cartacei: come fare click sul proprio sito? Come smuovere le acque di qualcosa che si conosce poco? Mandando qualcuno, preferibilmente un personaggio tv, di cui i giornali subiscono i temi ormai da oltre vent’anni, a demolire i mostri sacri. Ve lo immaginate il critico del New York Times fare la stessa cosa? Magari, come in questo caso, forzando con il titolo e sbagliando l’anagrafe mettendo Bartolini al posto di Uliassi?
Dal canto suo la critica professionale italiana è sempre più concentrata, effetto Identità Golose ma anche Strade della Mozzarella, sui piatti, sulle tecniche, nelle quali il livello è già altissimo. In molti post non si vede neanche una foto di ambiente, tutto concentrato sull’autopsia della ricetta. Già, perché hai voglia a dire conto o non conto, conosciuto o meno, ma da un 16 in su dell’Espresso o da un due stelle Michelin in su è difficile che ci sia una diversità di esperienza tra un cliente e il critico.
Il rischio attuale è che le persone più preparate e autorevoli si concentrino esclusivamente sull’avanguardia, costituita in Italia da non più di cento ristoranti, mandando al museo tutti gli altri (tra cui Vissani, Santini, Iaccarino, Sultano, mica pizza e fichi). Insomma, twitter e non facebook per fare il titolo. Scriviamo per dieci o per tutti?
Perché lo giudico un rischio? Perché lascia il campo libero a magnafranca, personaggi in cerca di autore, weekender della critica, aspiranti comunicatori, nella fascia compresa tra il medio alto e il basso dove va la maggior parte dei clienti e dove si fanno i fatturati veri. Qui si c’è differenza, il più delle volte, non sempre, se ti riconoscono o se vai da cliente normale, si percepisce spesso nel servizio e talvolta, come è accaduto a Marco Lungo, sui piatti.
Una cosa è fare la fila per mangiare una pizza da Sorbillo e dai Salvo, altra è andare con il tavolo già libero superando i clienti normali. Magari sarà la stessa pizza, ma sicuramente nel secondo caso l’esperienza sarà più confortevole.
Io credo che la critica professionale non debba rinunciare a parlare di tutti e di tutto. Non ci si deve rassegnare lasciando ad altri il campo libero: è necessario raccontare l’avanguardia, ma soprattutto raccontare i luoghi dove la gente va a mangiare e spendere. Altrimenti avverrà lo stesso processo visto nel vino nello scorso decennio dove gli enochic parlano di alcuni vini, spesso estremi, sempre gli stessi, con tanta poesia e trasporto e creando miti tribali, mentre il mondo ne beve altri e si affida a Vivino per avere informazioni.
Ps: la panna sta alla carbonara come la farina integrale alla pizza napoletana, ai tortellini alla piadina. Solo che è meno dannosa.
3 Commenti
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Il problema è che da parte dei ristoratori c é pochissima autocritica e basta far loro una osservazione negativa seppur motivata e te li fai nemici.Atteggiamento profondamente infantile,non accettare le critiche costruttive.Subito a minacciare querele o ritorsioni di varia natura.Ma per piacere….
In Francia la carbonara è “cream fraiche”style e,considerando la bontà della loro panna viene buonissima.Certo in uno dei più titolati ristoranti ci si aspetta la ricetta eseguita rigorosamente,tuttavia considerando che Roma è città altamente turistica si può pensare q qualche concessione ai gusti stranieri,che detto tra noi,preferiscono condimenti”brodosi” e non apprezzano la semplicità di molte ricette italiche.
sono stato domenica 9 luglio 2016 da Cesare, ho mangiato la carbonara e della panna nemmeno l’ombra.