Kapnios 2003 Aglianico Beneventano igt |Voto 82/100
MASSERIA FRATTASI
Uva: aglianico amaro appassito
Fascia di prezzo: oltre 50 euro in enoteca
Fermentazione e maturazione: acciaio e legno
VISTA 5/5 – NASO 24/30 – PALATO 25/30 – NON OMOLOGAZIONE 29/35
Dunque, facciamo un po’ il punto della situazione. Se mi ricordo bene in Italia abbiamo l’Amarone della Valpolicella nel Veneto, lo Sforzato o Sfursat valtellinese e il Sagrantino umbro. Questi sono i soli tre vini rossi secchi che si producevano in Italia fino a pochi anni fa, derivanti da uve appassite parzialmente sulla pianta e, soprattutto, in fruttaio. A dire il vero, l’Amarone ha un omologo dolce che si chiama Recioto e pure il Sagrantino ha una versione dolciastra. Adesso, comunque, a questi vini bisogna aggiungere anche il Kapnios beneventano, prodotto dall’azienda Masseria Frattasi di Montesarchio con uve Aglianico Amaro del Taburno prefillossera appassite. Un vino raro, introvabile e speciale, prodotto soltanto in alcune annate molto favorevoli.
Questa azienda, oggi retta dai fratelli Pasquale e Mauro Clemente, ha alle spalle una storia antica e ricca di avvenimenti. A cominciare dalla sede aziendale ubicata in una vecchia masseria ristrutturata del 1179 nel comune di Montesarchio. I Clemente discendono dalla famiglia Cecere, la quale già dal lontano 1576 coltivava le uve in questa zona, così com’è attestato dai registri conservati nel Palazzo d’Avalos a Napoli. Intorno al 1950 l’allora titolare della Masseria, don Antonio Cecere (nonno materno dei due fratelli Clemente),
ha avuto il merito di salvare dall’oblìo la Falanghina in questo territorio, dove sopravvisse soltanto ai piedi del Taburno, tra Montesarchio e Bonea.
Tanto è vero che questa cultivar è chiamata proprio “Falanghina di Bonea”, per distinguerla da altri tipi territoriali. E’ allevata ancora a piedefranco ed in più le primitive marze sono emigrate proprio da qui, per essere utilizzate in tutta la Campania. Emblemi di questa produzione sono le due bottiglie denominate “Bonea”, con uve raccolte progressivamente fino ad ottobre inoltrato e, soprattutto, “Donnalaura Riserva” con le uve botritizzate raccolte nel mese di dicembre. In più, qui si pratica una coltivazione tutta con metodo biologico certificato.
Il Kapnios, che in lingua greca vuol dire affumicato e nell’antichità era già un vino citato da Platone e Plinio il Vecchio, viene vinificato soltanto in poche e fortunate annate, in cui l’Aglianico Amaro, dopo aver passato tutti gli esami, è ritenuto idoneo. Il millesimo 2003 è stato prodotto con appena 4.500 bottiglie. La forma di allevamento del vitigno è a raggiera, con storiche e vecchie piante che crescono su un terreno ricco di rocce sedimentate di dolomie, calcare e marne. Le uve vengono vendemmiate a mano già surmature a fine novembre e poi lasciate appassire per tre mesi in fruttaio all’aperto (per evitare le sgradevoli muffe dei locali ad aria condizionata), appese su fili di nylon. Dopo esse vengono pigiate e fermentate in parte in acciaio, con macerazione pellicolare per trenta giorni a temperatura controllata. L’affinamento avviene in barriques nuove di rovere francese di Allier, Nevers e Vosges a tostatura forte e media per oltre tre anni. Poi il vino riposa ancora altri dodici mesi in bottiglia nella nuova cantina interrata di oltre 1.000 metri quadrati, con umidità e temperatura costanti durante tutto l’arco dell’anno. La gradazione alcolica tocca i 14°.
Il colore di questo vino è un impenetrabile rosso cupo, con lampeggianti riflessi granata. Appena aperta la bottiglia bisogna aspettare alcuni minuti prima che si sveli al naso un bouquet ampio e avvolgente, con sentori inebrianti di frutta rossa matura e di sottobosco, come la prugna, le more e i lamponi, accompagnati da note balsamiche, eteree e di fiori rossi appassiti, marasche e ciliegie sotto spirito. E poi aromi terziari che evidenziano, boisé, tabacco, goudron e spezie. In bocca la notevole nota calda, data dall’alcol, e l’intensa struttura tannica sono bilanciate da un’ottima acidità, che rinfresca il palato. E’ potente, vellutato, succoso, persistente ed elegante. Il finale è appagante e richiama le primitive sensazioni fruttate. Un vino, quindi, tipo Amarone di Dal Forno o Quintarelli, completo, armonico e strutturato, perfetto da abbinare ad una cucina ricca e sostanziosa, come la cacciagione da pelo, stinco di maiale, grigliate di carni e formaggi stagionati. Pur essendo un vino già fondu, se si riesce a resistere al desiderio di berlo subito, conviene comprarlo adesso (vista la poca disponibilità di bottiglie in commercio) e lasciarlo beatamente riposare in cantina ancora per altri cinque o sei anni, perché è ancora charpenté. Ne vale veramente la pena, credetemi.
Enrico Malgi
Sede a Montesarchio (BN) – Via Torre di Varoni, 15 – Tel. 0824/834392 – www.masseriafrattasi.it – Enologo: Renato Ciaramella – Ettari di proprietà: 6, più 4 in gestione. Bottiglie prodotte: 50.000 – Vitigni: aglianico, falanghina e moscato.
10 Commenti
I commenti sono chiusi.
Ottimo, Enrico! Neanche la neve ti ferma, ma sarebbe stato interessante saperne qualcosa anche di quella falanghina botritizzata della foto che hai pubblicato…sarà per la prossima. Perchè hai usato il “prestito” charpentè? Molti abbracci…
E’ vero, grande vino. Degustato in occasione della visita Slow Wine (sette-otto mesi addietro) aveva già pienamente convinto.D’accordo con Enrico sulla scorta: da bere tra qualche anno per entusiasmarsi ancora di più.
@Lello, hai proprio ragione: anche sotto la neve mi piace andare in giro per cantine. Per quanto riguarda la Falanghina botritizzata, a parte quello già riportato nel post, ti dirò in breve che essa è composta da un coupage fifty-fifty proveniente dalle due zone tipiche di Bonea e Varoni. Pensa poi che in quest’ultima frazione di Montesarchio è stata scoperta una necropoli sannita del V secolo a.C. Per tornare alla Falanghina botritizzata, essa ha una gradazione alcolica che supera addirittura i 14 gradi. Subisce una parziale fermentazione malolattica, affinamento in acciaio per tre mesi, sei mesi in legno e successivo riposo in bottiglia. Questa Falanghina, poi, è stata premiata da Luca Maroni come miglior vino bianco d’Italia nelll’Annuario. Inoltre si chiama “Donnalaura, perché è dedicata alla nonna dei fratelli Clemente Laura Abate. Spero che abbia soddisfatto la tua giusta curiosità, va bene? Ultima cosa ancora: ho usato l’aggettivo “charpentè”, perche qui ci calza proprio a pennello, come mi hanno insegnato in Francia e poi dopo la mia insegnante italiana. Come tu certamente sai, vuol dire che questo vino è un rosso ben costruito, ma un pò tannico, che migliorerà senz’altro invecchiando.
@Pasquale, grazie del tuo gradito intervento e scusami se ho invaso il tuo territorio.Il fatto è che un amico di Novara, Guido Invernizzi realtore AIS e grande esperto di vini campani, ha insistito tanto per farmi conoscere questa grnde realtà beneventana. E devo dire che aveva proprio ragione. Abbracci.
A me interessava la falanghina non la necropoli…e comunque ti ho dato un assist per fare un altro post nel post…;-)) per quanto riguarda il termine “charpentè”, che io sappia, significa robusto e se tu dici ” perché è ancora charpenté”, significa che ti aspetti che, col tempo, diventi meno strutturato e quindi diminuisca i valori dell’ “estratto secco”, cosa che come tu ben sai, non può essere…umilmente ti riabbraccio ;-)))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))))
Caro Enrico,
grazie della nota. Davvero precisa. Ma sulla falanghina mi corre l’obbligo di fare chiarezza. Della varietà esistono due biotipi. Uno è presente nei Campi Flagrei. Due sono presenti nei vigneti a Montesarchio e Bonea. Uno di questi due è lo stesso dei Campi Flegrei, ed è la pianta di falanghina credo più antica della Campania, e quindi d’Italia, circa due secoli. L’altro è tipico di Bonea e Montesarchio, ed anche di questo abbiamo piante secolari. Tutti ceppi secolari presenti nei vigneti dell’azienda che ho l’onore e il grave onere di condurre.
La ditta Rauscedo, i vivai cooperativi, hanno saccheggiato per anni la zona, non hanno mai fatto una selezione seria, hanno propagato marze a casaccio in tutta la Campania, anche in zone non vocate, come quelle vicino a grandi fiumi ed hanno creato grandissima confusione, insieme alla mancata approvazione di una docg, specie per l’opposizione incomprensibile e commerciale di molte aziende avellinesi, che comprano le uve da noi e vinificano ad Avellino, spesso provocando danni enormi al buon nome del nostro vitigno.
In azienda la resa per ettaro dei nostri vigneti storici è vicino ai 50 quintali. Ovviamente la falanghina, i nostri due biotipi coltivati fuori dall’area del monte Taburno, perché Montesarchio e Bonea sono alle falde del Taburno sono, permettimi per patriottisimo, acqua fresca, nel senso che l’area di origine coincide con le propaggini del Taburno. Stop. E’ come voler dire che il greco può essere coltivato anche in Puglia. E’ sempre greco, mna è altra cosa dal greco di Tufo. Cos’ la falanghina altrove è altra cosa dalla falanghina del Taburno. E’ per questo motivi che da alcuni anni mi batto strenuamente per il riconoscimento della DOCG FALANGHINA DEL TABURNO. Il solo modo per tutelare e valorizzare un vitigno sfruttato da tutti, umiliato da pratiche poco rigorose e soprattutto poco studiato. Grazie per l’ospitalitaà.
Pasquale Clemente
Grandissimo e competentissimo Lello, possiamo anche fare dell’accademia linguisitca, io ci sto volentieri. Dunque, come succede sovente ogni termine ha varie interpretazioni, soprattutto quando si riferisce ad accezioni straniere. In effetti “charpenté” vuol dire anche struttura, corporatura, ben piantato e ben costruito. Ma, come tu mi insegni, questi termini sono alquanto soggettivi e generalizzati. Nello specifico, però, quando io accosto questo aggettivo ad un vino la giusta interpretazione è quella che io ti dato prima. Cioè vuol dire che è sì ben costruito (il vino), ma che è anche “tannico e che migliorerà invecchiando”. Questa interpretazione ci viene data, tra l’altro, proprio dal glossario della terminologia sui vini francesi, come tu e moltissimi altri sapranno. Ti abbraccio, ti voglio bene ed è sempre un piacere confrontarmi con un esperto come te.
Sei meraviglioso, caro azzeccagarbugli Enrico!!! Va bene anche così e comunquemente nonchè infattamente, W il Cilento…. ;-))
Azzeccagarbugli?…… alias dottor Pettola oppure dottor Duplica, avv. lecchese di manzoniana memoria? O forse volevi dire Carneade, ciitato nell’incipit da don Abbondio nell’VIII capitolo dei Promessi sposi? In effetti, chi mi conosce a parte te e tre o quattro persone? Sei meraviglioso. E visto che il Cilento ti manca nei miei post, a breve ritornerò all’ovile, va bene? Ti abbraccio sempre più forte.
Caro Pasquale, grazie per il tuo sagace e puntuale intervento. Sono d’accordo su tutto quello che affermi a proposito della Falanghina. Sempre tenendo presente, comunque che il valente e inimitabile “maestro” Lello Tornatore non abbia nulla da ridire, cosa che mi stupirebbe molto;-)))))))))))))))))))))))))))))))))))))) Abbracci.
Grande Enrico, più che “valente e inimitabile maestro”, sono semplicemente un contadino produttore di uve che si avvantaggia di un’esperienza vivaistica trentennale e di un corso ais svolto “qualche annetto” fa ed inoltre ho la fortuna di frequentare il vino quotidianamente, dato il mio attuale impegno di imprenditore agrituristico, della serie “dopo tanti anni nella musica, almeno i piattini, li sappiamo suonare”. Detto questo, ha perfettamente ragione l’amico Pasquale, ne parlavo appena pochi minuti fa al telefono con Michele Cianciulli, origini irpine ma vive a New York, dove importa vini internazionali e quindi anche campani. I vivai cooperativi di Rauscedo, mi risulta personalmente, anch’io ho fornito loro le marze, non si creano il problema di fare sopralluoghi preventivi per selezionare i soggetti nel momento più utile, e cioè quello della maturazione delle uve, prendendo così, nel periodo della potatura, tutto quello che capita, magari anche marze di piante affette da virosi. Sul discorso della DOCG, sono piuttosto scettico su ciò che sostiene l’ottimo Pasquale : il problema non è dare l’imprimatur a qualcosa che ineluttabilmente continuerà ad essere la stessa cosa di prima, se non c’è la volontà e la capacità dei produttori di comprendere che l’unica strada percorribile è quella della qualità, l’abbiamo già visto con altre DOCG, vorrei ricordare il caso eclatante di “Brunellopoli”, con quello che è successo per l’Amarone e con quello che non è uscito ancora fuori.