Josko Gravner e un’antica stroncatura sul Gambero Rosso. Piccoli appunti di critica enologica
Sulla copertina dell’ultimo numero de Il Gambero Rosso c’è un’immagine intensa di Josko Gravner, il grande vignaiolo di confine che ha reso mistiche la viticoltura della ribolla e l’uso dell’anfora.
L’editoriale del nuovo direttore Lorenzo Ruggeri è una sorta di manifesto programmatico. Loda i visionari, categoria d’irregolari che anche a noi piacciono assai. Tra questi, oltre al settantaduenne Gravner, c’è il peana del grande Corrado Assenza, anch’egli protagonista di una lunga e bella intervista nell’ultimo numero del mensile. Personaggi diversi per provenienza e mestiere, ma simili negli intenti e nei risultati. L’estrazione dello spirito del luogo, del genius loci di ciò che fanno e di ciò che sono.
Ci piace molto l’approccio di Ruggeri, che è un professionista serio e (molto) competente.
Con riferimento al viticoltore friulano, protagonista del numero in edicola, il neo direttore dice: “In una fase delicata per il mondo del vino, che s’interroga sulla sua identità, la forza del pensiero di Josko, la sua coerenza, il suo essere netto, sono modelli preziosi. Gravner ha indicato una strada, per anni l’hanno definito un pazzo, o peggio”.
Siamo fan assoluti di Gravner e delle sue qualità straordinarie di uomo e di viticoltore, e al tempo stesso appoggiamo ogni singola parola spesa da Lorenzo Ruggeri.
Il quale forse non sa che molti, ma molti anni fa proprio Il Gambero Rosso aveva decretato la fine ineluttabile del visionario di Oslavia.
Correva l’anno 1999, e nel numero di dicembre il recensore titolò il suo articolo “In caduta libera”, con riferimento agli assaggi dei vini di Gravner del 1997.
Attenzione. Era un altro Gambero, un’altra epoca, un altro mondo. Anche un altro Gravner. Che all’epoca coltivava anche Sauvignon, Chardonnay, Merlot oltre alla ribolla e al pignolo unici protagonisti odierni. In quegli anni produceva ancora l’uvaggio Breg e, en passant, il suo Rujno 1997 (Merlot in purezza) è stato considerato uno dei suoi più grandi di sempre.
Tuttavia, il recensore dell’epoca, intravvide l’inizio della sua fine, così argomentando: “..il suo Chardonnay, potente e grasso, il suo Sauvignon, profondo e di spettacolare e intrigante complessità, persino la Ribolla Gialla sono arrivati nelle scorse vendemmie a vertici assoluti. Ma questo, per Josko, non era e non è abbastanza. Lui corre dietro a un fantasma, forse a un sogno, ad un ideale di vino perfetto. E così, nel rimettere continuamente tutto in discussione, dalle fermentazioni alle maturazioni dei vini, prima in acciaio, poi in legno, poi ancora in dolia di terracotta come facevano gli antichi romani, e poi infine nel legno nuovo come un tempo, ha forse perso di vista quello che aveva già acquisito”. L’autore conclude con un laconico: “Pensaci, Josko”.
Il mondo è bello perché è vario, e a rileggere certe cose (molti) anni dopo viene da sorridere.
I grandi uomini vogliono sempre uscire da quella che oggi in modo un po’ sterile viene chiamata “comfort zone”. E’ la caratteristica dei visionari, che tanto ci piace.
C’è chi sa cogliere la grandezza di questa sfida e chi vorrebbe che tutto restasse uguale e basta, senza nemmeno invocare il finto cambiamento come Clemente di Metternich (“che tutto cambi perché nulla cambi”).
All’epoca i professionisti del settore presero una posizione precisa contro questa “eresia” del Gambero. Roberto Checchetto, allora presidente della condotta Slow Food (o forse ancora Arcigola, chi si ricorda!) per la provincia di Treviso scrisse al periodico in bello stile: “Nelle questioni più importanti, come in quelle più semplici della vita il punto fondamentale è dato dalla volontà e dalla disponibilità di capire ciò che fanno e sono gli altri, senza la presunzione di condurli o peggio ancora piegarli nel proprio alveo”. Concludendo, dopo lunga disamina: “In ogni caso, a noi i vini di Josko
Gravner del ’97 sono piaciuti e voi siete davvero sicuri di averli assaggiati?”.
Erano altri anni, in cui per prendere posizione bisognava prendere carta e penna ovvero Lettera 32 e sprecarsi per andare in posta a spedire raccomandata, non esistevano ancora il leoni da tastiera e le loro due righe di invettiva sgrammaticata e sciatta perché tanto è gratis.
Era un’epoca in cui c’era ancora parecchia serietà nelle corporazioni come Slow Foode Arcigola e una certa capacità nel distinguere il buono dal cattivo.
Infatti, possiamo dirlo, Il Gambero prese un bel granchio.
Tuttavia, leggere oggi di codesti svarioni è interessante per capire il mondo che fu, che per alcuni aspetti è drammaticamente uguale a quello di oggi, pieno di gente che difende l’ordine costituito.
Con questo nuovo corso, siamo sicuri che i tipi del Gambero avranno grande cura nel riconoscere e promuovere i grandi artigiani del cambiamento e non solo le realtà mainstream.
Un commento
I commenti sono chiusi.
Conosco personalmente Lorenzo Ruggeri per costanti frequentazioni al Gambero ed inoltre perché,fino all’ultimo trasloco,ha abitato nel mio quartiere per cui mi trova concorde nel predire un suo ottimo lavoro ma quello che non capisco e questo “scontro”o presunto tale tra Slow Food e Gambero Rosso su Josko visto che all’epoca facevano ancora la Giuda dei tre bicchieri a “quattro mani”FRANCESCO