Joselito – Juan Antonio Medina
di Giulia Gavagnin
E’ la Ferrari dello jamon iberico e, come tale, taglia il traguardo sempre per prima. Joselito non è soltanto un acclamato brand di prosciutti lussuosi, così diversi dai nostri, più affusolati, dalla linea aerodinamica, il sapore intenso ed inconfondibile. E’ un’autentica scuola dell’eccellenza agroalimentare, termine inflazionato e odioso, ma quantomai calzante nel caso in oggetto. Basti pensare che l’azienda possiede 170.000 ettari di “dehesa iberica” tra Salamanca, Extremadura e Huelva, destinati all’allevamento di animali. Mucche, pecore e i famosi maiali allevati a ghiande freschissime, cadute dagli alberi da non più di due giorni.
“Ogni maiale ha a disposizione circa quattro ettari di terreno, un caso più unico che raro” dice Josè Gomez Jr., erede della dinastia, con lui giunta alla sesta generazione.
Ventisei anni, italiano fluente, studi in Italia e una passione dichiarata per il nostro paese, il giovane Josè è stato protagonista della prima delle quattro serate che l’hub di Identità Golose a Milano ha dedicato al brand e al nuovo ristorante di proprietà Joselito, aperto a Madrid da un paio d’anni. “‘A Barra” è partito con la quarta innescata, con la stella Michelin subito appuntata sulla casacca dello chef Juan Antonio Medina, allievo di Arzak, Santamaria e Adrià, ed executive chef per undici anni nel primo tristellato madrileno, Zalacain. Un pedigree importante, che non ha mancato nemmeno un passaggio dai Santini a Canneto sull’Oglio, non poteva che avere un’ambizione collimante con quella dei Gomez. E i risultati sono stati sorprendenti anche in trasferta a Milano, dove il pubblico è rimasto sinceramente impressionato dalla tecnica di Medina.
L’apertura è stata affidata, ovviamente, ai prodotti di punta di Joselito: lo Jamon Gran Reserva 2014, annata difficile per il vino ma straordinaria per il prosciutto, e la coppa, dichiaratamente ispirata alla nostra charcuterie. Prodotti che non hanno bisogno di troppe presentazioni, vista anche l’oscillazione dei prezzi sul mercato, degni di un’asta da Sotheby’s.
Ma Joselito non è soltanto coscia del maiale, utilizza tutte le parti dell’animale, e destina alla cucina madrilena tagli di pari pregio. Il guanciale, ad esempio, che finisce in un piatto di tipica scuola basca, uno strepitoso filetto di anguilla con porro alla griglia; e il capocollo affumicato, salsa speziata, cipolla e mais, un piatto che ha già 16 anni, ci dice lo chef, e un po’ si capisce per l’utilizzo della cottura a bassa temperatura, ma applicata con rigore quasi teutonico per un risultato sorprendente. I prodigi degli “happy pig” (così li definisce Josè) terminano qui e giunge il momento di sgrassare: minestra dolce di verdure, di ineguagliabile freschezza, costituita di ortaggi osmotizzati con la frutta. Un dessert poco dolce che ha stupito anche le platee più qualificate. Una riflessione è d’obbligo: le trasferte sono spesso insidiose per gli chef, perché spesso il trasporto dei materiali, unito alla lavorazione in una cucina diversa dall’originaria consegna un prodotto che non raggiunge il livello di quello del ristorante di provenienza. Medina ha invece presentato tre piatti di assoluto livello, perfetti nell’esecuzione, nella presentazione e nella temperatura di servizio.
Il merito è certamente suo, ma probabilmente anche un poco della scuola di provenienza, quella spagnola, che in vent’anni ha rivoluzionato la cucina mondiale e conquistato un posto nell’Olimpo gastronomico. Estro e rigore, in un matrimonio indissolubile, che se fossero portati agli stessi livelli dai nostri cuochi, realizzerebbero –forse- la profezia di Paul Bocuse, che vent’anni fa preconizzò la supremazia della cucina italiana su tutte le altre. Purtroppo sbagliò, e non solo per colpa sua.