Invecchiato Igp. Sassaia 2017 di Angiolino Maule
Vulcanico è il suolo, vulcanico è Angiolino Maule, personaggio mitico della viticultura italiana, fondatore di Vinnatur. Siamo andati a trovarlo questa estate, era luglio, a la Biancara, nata nel 1988 a Gambellara in provincia di Vincenza, quando lui e la moglie Biancamaria decisero di comprare sei ettari e costruire la cantina dopo aver gestito una pizzeria per 12 anni. Come sempre accade quando visiti aziende familiari interamente dedite alla viticultura, sei di fronte ad un personaggio che ha tanto da raccontare, si parla più che degustare il vino. La sua filosofia è molto semplice: niente chimica in vigna e in cantina, la buona frutta nasce dalla composizione del suolo e dalla sua tutela anche nel modo di lavorarlo, evitando di essere invasivi anche con i trattori, falciando poco e rispettando tutti i micro organismi che aiutano la pianta, per esempio nei periodi di siccità e di caldo eccessivo come quest’anno.
Oggi l’azienda ha 18 ettari complessivi (15 di proprietà, 3 in fitto) coltivati essenzialmente a Garganega e a Tai Rosso (a Sossano nei Colli Berici).
Per Maule la pianta ha tutte le risposte necessarie ai problemi che possono nascere nel corso di una annata fino alla vendemmia, comprese le difficoltà che derivano dal cambiamento climatico. Non a caso ha caso lui e Biancamaria hanno puntato sulle uve che stanno in questo territorio da almeno un millennio. La biodiversità è la ricchezza, dice, ed è una grossa opportunità commerciale nel mondo del vino ormai troppo omologato e uguale a se stesso.
Sassaia, da uve garganega con un saldo di trebbiano, è stata la prima etichetta della coppia. E noi lo beviamo a pranzo sulle pizze di Simone Padoan, fratello di Biancamaria, un grande pizzaiolo che nel piccolo paesino veronese San Bonifacio ha rivoluzionato il concetto di pizza italiana creando uno stile un po’, come abbiamo avuto modo di scrivere in altra sede, come Marchesi ha inciso sulla nostra cucina. Una magnum del 2017.
Il bianco di Angiolino si avvia con una fermentazione di lieviti indigeni in botti di rovere. Non viene né filtrato e né chiarificato. E’ tenuto però lontano dalle macerazioni esasperate oggi tanto di modo e il risultato è di una gustosa eleganza coinvolgente e allegra. Le prime sensazioni olfattive a distanza di sette anni ci parlano di polpa di frutta bianca ben evoluta, sbuffo fumé, nota balsamica, in parte anche agrume (tra cedro e arancia, non so distinguere). Meglio, varia. Si, come tutti i grandi vini una volta aperto è cangiante. Lo proviamo nella giusta temperatura, ossia non freddo ma fresco di cantina tra una meraviglia di Simone e l’altra e ne godiamo tantissimo. Al palato infatti si ritrovano con assoluta coerenza le sensazioni che ho tentato di descrivere, il sorso è polposo, corretto da una magnifica sapidità e da una assoluta verve acida che gli da un tono quasi giovanile. Mai alla cieca avrei detto che si tratta di un bianco di sette anni.
Un vino di equilibrio, senza eccessi, assolutamente bevibile. Favoloso. Rientra fra le bevute che si ricordano, merito del vino, della compagnia e delle pizze di Simone: anche la degustazione deve avere il suo giusto ecosistema!