Il Vinitaly dei bianchi: sei etichette effervescenti o tranquille da non perdere
di Raffaele Mosca
Hofstatter – Michei Extra Brut
Cominciamo con un bel metodo classico: Martin Foradori Hofstatter ha presentato quest’anno uno spumante di montagna vero, prodottp da vigne sopra i 750 metri d’altitudine ( e non in pianura, come altri Trento DOC che rivendicano il claim “bollicine di montagna” senza avere nulla a che fare con le alte quote). La base è composta da Chardonnay al 100%, con quarant’otto mesi di mesi sui lieviti. Il profumo è seriamente alpino: le erbe spontanee la fanno da padrone, seguite da fiori di campo, burro e tostature sottili, e solo dopo dalla solita fragranza. La bocca è una lama d’acidità avvolta dall’abbraccio cremoso dell’autolisi: un binomio veramente ben riuscito di freschezza anche vegetale e polpa discreta che lo rendono ben spendibile con una gamma variegata di piatti: dal solito cartoccio di fritto ai tonnarelli cacio pepe.
Paul Dethune – Champagne Ambonnay Grand Cru 2012
Dal Trentino alla Champagne, con questo produttore fresco d’importazione in esclusiva da parte di Ca di Rajo, azienda del trevigiano di cui avevamo parlato in occasione della scorsa edizione. Trattasi di millesimato molto ambizioso dal Grand Cru Ambonnay, la patria del Pinot Nero, che si esprime con potenza tale da dare di fatto dei rossi con le bolle. Basta un’annusata per rendersi conto di avere a che fare con un prodotto di un certo spessore: amaretto, pan di spagna, crema di caffè e funghi essiccati vanno a braccetto con il solito ricordo di gesso/calcare champenoise. Ha veramente la polpa di un rosso “sbiancato” – con tanto di guizzo tannico di fondo – ed è assolutamente sconsigliabile come aperitivo o con il pesce: sta molto meglio con una carbonara o con un pollo alla cacciatora.
Collazzi – Ottomuri 2022
Passando ai bianchi fermi, ne troviamo uno sorprendente da una delle zone meno interessanti d’Italia per la tipologia: la Toscana che va dal Chianti alle porte di Firenze, già terra di Galestro Capsula Viola. Da una sperimentazione voluta dalla regione Toscana negli anni 80’, nasce l’idea di piantare e vinificare Fiano su suoli ricchi di argille – e di galestro in particolare – in questa tenuta di 450 ettari, di cui è comproprietaria Bona Marchi, madre di Lamberto Frescobaldi. Circa il 20% della massa passa in barrique, e lo si evince facilmente da tostature e affumicature iniziali che cedono il passo a pesca gialla, nocciola, un pizzico di erbe aromatiche. Rispetto a tanti altri bianchi dell’entroterra toscano – Vernaccia a parte – ha slancio, energia, vigore sapido che smorza la cremosità di fondo e allunga la chiusura pulita. E’ godibile adesso, ma sarà meglio tra un paio d’anni.
Tenute Cesaroni – Verdicchio dei Castelli di Jesi Superiore Poggio Nuovo 2016
Un salto veloce allo stand della Regione Marche, situato in posizione centrale e dominante su di uno dei padiglioni più grandi. Molte conferme, qualche novità, tra cui spicca questo Verdicchio sui generis, da vendemmia leggermente ritardata e tenuto da parte per ben sette anni prima dell’ingresso in commercio. E’ esuberante ed estroso: simile a un bianco alsaziano con il suo profluvio di zafferano, spezie dolci, propoli, qualche soffio di curcuma; ha morbidezza glicerica, rafforzata da un leggero residuo zuccherino (3 g/l), ma subito smorzata da acidità intonsa e timbro minerale canonico. Qui c’è da sbizzarrirsi con gli abbinamenti “internazionali”: sushi, riso piccante, qualunque pietanza che contenga un po’ di curry.
Masciarelli – Abruzzo Pecorino Castello di Semivicoli 2014
Al padiglione Abruzzo, si è tenuta una bella retrospettiva sul Pecorino, il vitigno riscoperto meno di trent’anni fa che, in un arco di tempo piuttosto breve, è diventato il motore trainante del vino bianco abruzzese. Marina Cvetic, nel suo castello-resort a metà strada tra Chieti e la Majella, ne produce una versione che, a nove anni dalla vendemmia, sprizza ancora freschezza floreale e vegetale, a rimarcare la grande stoffa di questo millesimo negletto per i vini bianchi. Ha una bocca “rieslinghiana”: giocata tutta su una commistione di acidità squillante, polpa discreta di frutta a guscio e leggeri soffi idrocarburici. Non sarà mai un campione di complessità e concentrazione, ma continuerà a brillare per integrità e tensione per molti anni.
Prà – Soave Monte Grande 2016
E tanto per rimanere in tema di bianchi da invecchiamento, concludiamo con il cru di Graziano Prà, uno dei pochi grandi del Soave, vino massacrato da produzioni scadenti, frutto di rese iperboliche. La 2016 per Monte Grande, da U.G.A. ufficialmente riconosciuta, è l’ultima annata in cui una parte della produzione è stata imbottigliata con sughero, prima della definitiva svolta “svitata”. Ad esserne onesti, la 2016 con tappo di sughero sembra più espressiva in questa fase: lascia emergere con molta chiarezza la pratica del taglio del tralcio, mirata ad avere uve più concentrate, che danno vita ad un intreccio di spezie, miele, albicocca e cherosene, quasi in stile Riesling Auslese (ma senza zucchero). Notevole il sorso, in perfetto equilibrio tra acidità, salinità vulcanica e abbondanti parti gliceriche. La versione con tappo a vite, invece, rimane un po’ sulle sue: riduttiva, idrocarburica e più snella in bocca. Ora come ora piace meno, ma la sensazione è che sarà molto più longeva.