Il rosso di Capri
La cucina di Capri è leggera, le cotture attente alla materia prima: per questo il suo rosso è un po’ snob, quasi fuori moda per tutti gli anni ’90 anche se adesso c’è un ripensamento profondo su cosa e come bere quando si mangia. Il protagonista è un vitigno amato dai napoletani ma il cui nome, Piedirosso, non dice nulla a chi vive nelle altre regioni italiane. Aglianico, Fiano di Avellino, Greco di Tufo, Falanghina: i vitigni della Campania sono ormai conosciuti bene non solo dagli esperti ma anche dal più largo pubblico degli appassionati. Pochi, sanno, invece, che il successo di questi vini è dovuto all’oscuro lavoro di altre uve molto diffuse sul territorio: si tratta della Coda di Volpe e, appunto, del Piedirosso, di gran lunga il più coltivato nei vigneti isolani. Entrambi hanno il compito di correggere <i difetti> degli autoctoni finiti sotto i riflettori e poi farsi da parte, proprio come il gregario tira la volata al capitano della squadra nell’ultimo chilometro. Sostanzialmente, la Coda di Volpe nei bianchi e il Piedirosso con l’Aglianico hanno il compito di ammorbidire il vino, renderlo di beva più facile, accorciare i tempi di attesa abbassando l’acidità e diluendo i tannini.
Oggi la tecnologia in cantina e nei campi rende possibili queste operazioni senza dover ricorrere necessariamente al blend inventato dai contadini, ma sino a qualche tempo fa il ruolo di questi due vitigni poveri era essenziale sul piano commerciale, vitale per il reddito nelle campagne, perché in una metropoli di grande consumo come Napoli era importante avere il vino pronto nel più breve tempo possibile. La dimensione della domanda e la caratteristica delle ricette hanno formato di un gusto molto ben definibile, riconoscibile, alla base del successo della cucina napoletana in Italia e nel Mondo. Ritrovate il Piedirosso con l’Aglianico a Gragnano, a Tramonti, in Irpinia e nel Sannio: insieme fanno un matrimonio classico, tradizionale, in cui i difetti dell’uno sono compensati dai pregi dell’altro e viceversa. Solo se stanno insieme è infatti possibile bere il vino entro l’anno dalla vendemmia senza dover aspettare oltre. Siccome nel mercato campano la domanda è sempre stata di gran lunga superiore all’offerta, questo è il motivo per cui la cultura dell’invecchiamento del vino è arrivata solo di recente, con la nascita della moderna viticoltura dopo la crisi del metanolo. Nel senso comune delle persone, anzi, il vino vecchio è ancora considerato qualcosa da evitare perché non buona e insicura. Certezze nate nel passato che l’avvento del frigorifero, delle tecniche di vinificazione a temperatura controllata e delle cantine moderne non sono state ancora capaci di estirpare del tutto. Del resto anche la cucina, pomodorosa, squilibrata, ama vini aggressivi, decisi, addirittura un po’ tannici mentre sulla pizza è difficile pensare a vini di corpo, concentrati, opulenti, legnosi, come quelli imposti dal gusto internazionale
Non bisogna essere allora esperti per capire che Coda di Volpe e Piedirosso sono uve che, se vinificate da sole in purezza, regalano vini pronti, giovani, di facile beva e di consumo immediato, allegri, capaci di rappresentare l’archetipo del palato partnopeo perché proprio in città hanno conosciuto il maggiore successo. Per i napoletani, infatti, il vino rosso è il Piedirosso. Dopo l`aglianico è infatti il vitigno a bacca rossa più diffuso in Campania, anche se, come detto, spesso recita il ruolo di comprimario, come Peppino con Totò, perché nella tradizione contadina, ripresa da gran parte degli enologi, serve ad ammorbire i difficili tannini dell`aglianico. Riflette l`anima partenopea anche se, un po` come la Falanghina, è ben interpretato anche in tutta la provincia di Benevento.
Un vitigno regalato dal mare, inizia il suo percorso timidamente in Costa d`Amalfi, è buon interprete nel Gragnano e nel Lettere, ancora nel Lacryma Christi mentre a Capri, Ischia e nei Campi Flegrei è chiamato <Per `e palummo>, piede di colombo per il colore rosso dei pedicelli quando la maturazione delle uve è alle porte. Non manca mai, anche se non è altrettanto significativo, nelle altre province della Campania.
Le caratteristiche tecniche sono inconfondibili: germoglio ad apice espanso, verde chiaro, lanugginoso, foglioline apicali spiegate, verde chiaro con sfumature vinoso-bronzate ai margini, un po’ cotonose. Foglia media, orbicolare.pentalobata, lembo ondulato, bolloso, verde scuro con pagina inferiore vellutata. Grappolo medio-grande, tozzo, tronco piramidale a volte semi-spargolo, con peduncolo rosso vivo, acino medio, sferoide, rosso violaceo, buccia spessa e pruinosa, con ombelico visibile, polpa succosa-carnosa, dolce, di sapore speciale. Diffuso da tempo immemorabile, il piedirosso è in genere interpretato come vino da bere giovane, fresco ed è sempre stato il rosso più consumato nelle bettole e nelle osterie del capoluogo prima dell`avvento della birra. Più di tanti altri vitigni rossi ha sofferto la concorrenza dei bianchi sino a tutti gli anni `80, poi è passato decisamente in secondo piano per il boom dell`Aglianico. Ancora oggi possiamo trovare delle chicche sparse qua e là, soprattutto a Capri, nei Campi Flegrei e a Ischia. Eppure nessuno rosso, neanche l`Aglianico, ha tante possibilità di abbinamento nella cucina classica partenopea come il Piedirosso, a cominciare dalle zuppe di pesce per continuare con le parmigiane di melanzane o di zucchine, la zuppa di pesce, il pescespada alla pizzaiola, il totano imbottito e via con tutto il repertorio vegetariano sino alla pasta con il pomodoro e il ragù. La sua diffusione, e importanza, è testimonianza sul piano normativo dalla presenza delle doc Capri, Campi Flegrei, Ischia, Vesuvio, Penisola Sorrentina, Sannio, Taburno, Sant`Agata dei Goti e Costa d`Amalfi e nelle igt Campania, Epomeo, Pompeiano, Irpinia, Beneventano.
Lo spirito dei Faraglioni e di tutto il Golfo è dunque in questo bicchiere allegro ma discreto, efficace sulla tavola tradizionale, nuovamente di moda con la cucina moderna che ha alleggerito il cibo, mai eccessivamente alcolico. Un bicchiere di Piedirosso.
Capri Review numero 26 del 2006