Il ristorante AM di Alexandre Mazzia a Marsiglia, il solista virtuoso tristellato della cucina francese
di Giulia Gavagnin
Cose che non diresti.
Non diresti che una delle più grandi cucine d’Occidente alberghi in un ristorantino che è il-mondo-in-una-stanza in un quartiere residenziale della meno francese delle città francesi.
Non diresti –se fossi italiano- che un tre stelle Michelin ha uno-e-dicesi-uno-solo- servizio igienico (lo chiameremmo in un altro modo, ma non siamo in Trainspotting) che diffonde a tutto volume le note di Bob Marley, con tutta la solfa che leggiamo in certi luoghi sull’importanza maxima del lussuoso bagno in marmo pregiato, degli amuse bouche e del dessert, tanto sono quelle le cose che si ricordano (a certa gente andrebbe tolta la penna, ad alcuni anche tagliate le dita, grazie).
Non diresti che lo chef titolare del ristorantino e-bien sur- delle Tre-dicesi-Tre stelle Michelin sia un lungagnone dallo sguardo timido ed assorto che non molla un secondo la sua posizione standing scrutando sornione il pubblico mentre completa ogni singolo piatto in uscita a colpi di sifone o di pinzette. Soprattutto, che questo modus operandi costituisca esattamente l’opposto dello chef-star che costui è ma, evidentemente, come chiunque abbia coltivato l’essenza e non l’apparenza da parvenu, poco gliene importa.
Alexandre Mazzia è un fuoriclasse assoluto della cucina, un solista virtuoso con tratti continui di anarchia.
Nei rari casi in cui l’eccellenza si innesta nell’anarchia, i risultati sono deflagranti.
Probabilmente, Alexandre Mazzia non poteva che diventare grande qui, proprio qui, a Marsiglia: seconda o terza città della Francia, a seconda se si consideri o no l’area metropolitana circostante (in questo caso, Lione la supererebbe pur contando il suo comune quasi trecentomila abitanti in meno, non un’inezia), francese di lingua e di appartenenza amministrativa, Mediterranea di passaporto.
Città di porto, di molo, di fortezze, di mareggiate, di mistral, di connessioni, di souk, di spezie, di gente che va e che viene; mondo lontanissimo dalla Francia girondina della “grandeur”, dell’”Ancien Regime”, e anche, perché no, del foie gras.
Come Mazzia stesso, nato e vissuto in Congo nella Cote Sauvage, nomen omen, un paradiso lontano da Kinshasa ma affollato di natura, pescatori e spezie, prologo alla sua vita futura; tornato in Francia a 15 anni e cresciuto tra scarpe da basket e giacche da cuoco, perché fino ai 28 anni è stato professionista di pallacanestro ai massimi livelli, salvo essere stato costretto a rinunciare alle Jordan per un grave infortunio.
Da quel giorno, il mondo ha perso un cestista ma acquistato un grandissimo chef.
La sua biografia accenna a inizi come pasticcere da Pierre Hermè, di un passaggio nelle istituzioni di “Place de La Madeleine” a Parigi, e di una trasmigrazione spagnola da Santi Santamaria e Martin Berasategui.
Poi, il ritorno in Francia, come chef privato ad Avignone e da “Le Corbusier” a Marsiglia, dove è individuato come “the next big thing”, al punto da essere subito coinvolto dal nume tutelare marsigliese Gerald Passedat nel progetto Gourméditerranée, un ensemble di chef dalla cucina identitaria mediterranea (anche da noi c’è chi sta coltivando idee simili, vedi Gianfranco Pascucci e Marco Ambrosino), a riprova che da queste parti più che la grandeur fa il mare e la sua commistione di genti, venti, onde, in tourbillon che anche il più grande scrittore marsigliese, Jean-Claude Izzo, ha descritto come “Creolità mediterranea”
L’ascesa di Mazzia nell’olimpo della Michelin è stato fulminante: apertura di AM (il nome gioca tra le sue iniziali e l’assonanza con la parola “ame”, anima in francese) ne 2014, la prima stella nel 2015, la terza nel 2021. Sette anni, numero magico anche per la cabala, una progressione degna solo di un fuori quota.
“Se non ci sono non apro, riposiamo tre giorni, la squadra deve essere sempre la stessa, quella che vince non si cambia, non voglio altri locali”, dice.
Mazzia è unico, è diverso da tutti, nell’approccio intellettuale, nella scelta degli ambienti e nella gestione della cucina.
Finisce tutti i piatti in piedi, esaltando a un tempo la propria fisicità (è alto un metro e novantacinque) e la concentrazione.
La sua cucina è francese per ricerca della perfezione, la sua precisione nel confezionare i piatti ricorda quella della più grande cuoca vivente, Anne-Sophie Pic, con la quale condivide pure un tocco di grazia quasi femminea; la sua ispirazione estemporanea deve molto all’esperienza nei Paesi Baschi che segnarono un Ordine Nuovo in cucina; ma la sua essenza è totalmente anarchica, in linea con la vita trascorsa tra la Cote Sauvage e la città meno francese di tutte.
Così, l’esperienza da AM si snoda attraverso tre, quattro o cinque serie (a seconda del percorso scelto) di piccoli piatti o assaggi portati sul nudo tavolo en-ensamble, per goderne la sequenza meticolosamente studiata.
Sono piatti di una complessità inaudita, con tanti elementi che si incontrano in modo concentrico; vi sono spezie, fondi, bouillons, fermentazioni, estrazioni, riduzioni, vegetali, molluschi, crostacei, e molto altro in combinazioni concepite a punteggiare isole di gusto. Prove di grande virtuosismo che, attenzione, non è per nulla fine a se stesso.
Così, nella sequenza preliminare d’ingresso, citeremo soltanto qualche suggestione, a far capire l’ingegno che incontra l’ispirazione: cavolo cristallizzato allo zafferano, bottarga di caviale, zenzero e teste di sgombro bollite; gamberoni marinati, uva passa, brodo di radici, sommacco, pepe verde, fiori di stagione; parmigiano, pistacchio, pompelmo, aloe vera; gamberetti grigi, katsuobushi delle sue teste, olio di peperoncino verde, soluzione agrumata delle loro viscere.
Le danze del percorso vero e proprio si aprono sempre con un suo signature: uova di salmone e trota marinate al sakè in latte affumicato. Una preparazione che probabilmente ci ricorda qualcosa che abbiamo già provato prima, ma in uno spettro di armonie che cambia decisamente la prospettiva che avevamo.
Che dire, sempre per menzionare un altro assaggio della medesima sequenza, del bottone di cioccolato all’anguilla affumicata? Un capolavoro degno di finire sulle enciclopedie di cucina di questo millennio.
Sarebbe ozioso descrivere ogni singolo assaggio, giacchè il nostro percorso (il mediano di tre: “allons plus loin”) constava di 35 assaggi.
Varrà menzionare gli highlights, solo per dare una vaga idea dell’unicità di codesta cucina.
Cannolicchi al vapore di sakè, grani d’orzo soffiati, condimento iodato e alghe, succo di mela verde al finocchio; cozze, sgombro, aringa, noce di cocco, condimento al mojito e estragone; consommè di volatili e ostrica, estrazione di scorze d’arancia; topinambur fumè, frutto della passione, pastinaca, frutto del dragone, lumache grige; sgombro e perle di tapioca aikasaki; banana fermentata, riso soffiato, anacardi, kumquat.
E’ tutto estremamente intimo, evocativo, seduttivo, sulle ali della leggerezza come una barca a vela che sfreccia leggera a pelo d’acqua nel Mediterraneo.
Ogni assaggio è un piccolo porto quiete.
Questo è ciò che chiediamo a un grande chef: il buono, il bello, il nuovo, e anche un po’ il sogno.
Qui, a Marsiglia, abbiamo anche un po’ sognato, in questo porto franco dell’alta cucina mondiale.
Così, il laboratorio del maestro cuciniere Alexandre Mazzia si colloca ai vertici delle esperienze gastronomiche di tutti i tempi, sapendo coniugare l’imbattibile precisione della grande cucina francese con l’estro ispanico di sponda basca, nonché con una capacità narrativa di rara maestria che sfocia nell’onirico.
Sì, Alexandre Mazzia è davvero un fuoriclasse.
AM par Alexandre Mazzia
9 Rue Francoise Rocca – Marseille
Chiuso domenica, lunedì e martedì
Percorsi degustazione da 175 Euro a 435 Euro