Il Fieno di Ponza
Ponza, Fieno della pietratorcia
Fatte le debite proporzioni, Ponza stava al Regno di Napoli come l’Australia al Regno Unito: entrambe le isole erano popolate da persone che avevano commesso reati, in questo caso minori. Sicuramente non è possibile comparare la forza e le dimensioni della viticoltura australiana con quella della piccola isola borbonica, ma di una cosa siamo sicuri: in quel continente non esistono vini così tipici e caratterizzati di questo territorio. Per arrivare a Punta Fieno è necessario fare una passeggiata di almeno 40 minuti lungo una vecchia mulattiera, oppure saltare dalla barca sugli scogli.
Qui gli ultimi contadini di uno degli approdi preferiti della borghesia romana coltivano ancora i vigneti e usano la pietratorcia, sì come quella di Ischia delle famiglie Iacono, Verde e Regine, per pressare l’uva. A questa pattuglia si sono aggiunti il dentista napoletano Emanuele Vittorio e la moglie Luciana Sabino che hanno ripreso l’antica proprietà della famiglia Migliaccio a cui la zona del Fieno era stata assegnata dai Borbone nella metà del ’700. Biancolella, forastera, per’ ’e palummo e guarnaccia sono le uve, comuni alla vicina Ischia che rivelano chiaramente l’anima di Ponza. Al lavoro, la vendemmia è appena iniziata, c’è il giovane enologo flegreo Maurizio De Simone che di recente ha stabilito il suo quartier generale, ProVite, a Castelvenere, il paese più vitato della Campania.
Tre i vini, Fieno bianco, rosa e rosso, presentati in modo elegante grazie al make up di Ferdinando Polverino de Laureto (sua l’unica rivista napoletana di vino, Porto di Bacco). Parliamo allora del Fieno Bianco 2005, da uve forastera e biancolella, di cui ci ha subito colpito la struttura, decisamente difficile da trovare in questi vitigni dell’area isolana e flegrea, sostenuta dalla piacevolissima e quasi intatta freschezza tipica del millesimo piovoso e un po’ diluito. Un bicchiere sicuramente non impegnativo, ma unico al mondo, con metodi di tremila anni fa appena corretti in modo molto naturale dalla moderna scienza enologica. Sempre più a Maurizio piacciono tali espressioni estreme dei territori, ricordo anche l’incredibile Lentisco 2005 di Terra delle Ginestre. Nella sua suddivisione manichea, infatti, non ci sono vini buoni o cattivi, ma utili o inutili. I primi fanno pensare ed evocano gli odori e la terra del vigneto, i secondi inseguono il mercato sulla strada suicida del gusto internazionale completamente piallato dalla barrique. Come riconoscerli? Semplice, se quando bevete una nuova etichetta vi sembra di averla già provata, allora è un vino inutile. In caso contrario è utile. A cosa? Al vostro arricchimento sensoriale e mentale. Come il Fieno di Ponza.