Il colore dell’Aglianico e l’omologazione del passato
di Luigi Moio*
Caro Luciano,
ritorno su questo argomento perché secondo me è necessario chiarire meglio alcuni aspetti.
Concordo perfettamente sul fatto che non bisogna ricorrere a scorciatoie tra l’altro sleali. Ci conosciamo da tanti anni e sai benissimo come la penso su questo punto. Il problema però è un altro. Quando tu parli di uno stile omologante io non sono d’accordo se si considera che questo è il frutto di una evoluzione naturale di un sistema vitivinicolo.
Prima degli anni ’90 la viticoltura dei principali areali di coltivazione dell’Aglianico non era specializzata ed era improntata soprattutto all’ottenimento di alte rese, addirittura in alcune aree le coltivazione erano consociate. I vini erano prodotti da uve spesso non perfettamente mature e non perfettamente sane. In quegli anni non si dava molto peso alla qualità dell’uva e, commettendo un errore gravissimo si pensava che in cantina l’enologo avrebbe risolto ogni tipo di problema. Anche la formazione enologica era maggiormente incentrata sul processo di trasformazione trascurando gli aspetti viticoli. Il risultato, nel caso dell’Aglianico, era l’ottenimento di vini effettivamente non ricchi in colore e non eccessivamente “strutturati”.
Naturalmente, anche in questo caso è possibile parlare di omologazione.
Io ricordo benissimo che la maggior parte dei vini ottenuti dal nostro caro Aglianico rientravano tutti in un unico modello sensoriale caratterizzato da un colore evoluto, nonostante la struttura acida sostenuta, e da note odorose anch’esse evolute e tipiche di un invecchiamento, prevalentemente, di natura ossidativa. Anche in questo caso è possibile parlare di omologazione sensoriale. Tuttavia questo tipo di omologazione è frutto soprattutto di una carenza di sostanze odorose varietali e di una prevalenza di note odorose rientranti nella grande tematica dei difetti sensoriali.
Questi ultimi non sono molti, sono quasi sempre gli stessi e possono essere presenti nella stragrande maggioranza dei vini indipendentemente da cultivar di partenza, zona di produzione, suolo, annata, tecniche di vinificazione, ecc. Il risultato è che in questi vini diventa difficile individuare dei caratteri sensoriali che siano espressione di una vigna, di un suolo, di una annata; tutti aspetti fondamentali alla base della produzione dei grandi vini.
Dal ’90 ad oggi che cosa è accaduto? Si è finalmente capito che per ottenere vini di elevata qualità che siano anche in grado di trasmettere le peculiarità di un sito e di un areale di produzione, bisogna realizzare una corretta viticoltura portando in cantina uva sanissima e al giusto grado di maturazione. Questo punto è di estrema importanza soprattutto nella tecnologia di produzione del vino rosso perché, come è noto, si produce essenzialmente con la buccia.
Quindi, i vini ottenuti da Aglianico, oggi sono più colorati, più concentrati, più strutturati, più morbidi, più puliti, più integri sensorialmente e con tannini meno aggressivi, semplicemente perché è migliorata tantissimo la qualità dell’uva. Il che si traduce in una maggiore ricchezza ed integrità sensoriale del vino con un aumento enorme delle probabilità di individuare nel vino stesso un’identità sensoriale riconducibile alla vigna dalla quale è stato ottenuto. Questo risultato è il massimo auspicabile se si vuole tendere ad un modello vitivinicolo superiore. E’ chiaro che questi vini maggiormente integri e più “ricchi” hanno maggiore longevità e soprattutto in essi con maggiore lentezza appaiono quelle note sensoriali “evolutive” che molti erroneamente associano a caratteri di tipicità.
Tra l’altro questo fenomeno è accaduto anche nelle mitiche aree vitivinicole francesi di Bordeaux e della Borgogna. I grandi vini rossi di Bordeaux e della Borgogna degli ultimi venti anni non sono gli stessi del passato, c’è un’attenzione fortissima all’integrità sensoriale ed al prolungamento della longevità del vino.
Ritornando al nostro straordinario e fantastico Aglianico, i cosidetti “nuovi” Aglianici, dunque, se bevuti molto giovani e senza la necessaria competenza e consapevolezza possono, purtroppo erroneamente, sembrare “atipici”.
Infine è logico che tra Vulture, Taurasi e Taburno le differenze del potenziale enologico sono enormi. Sistemi di allevamento, rese, condizioni pedoclimatiche sono diverse, per cui è normale che, generalmente, i vini rossi del Vulture saranno sempre più colorati, strutturati e concentrati di quelli dell’areale del Taurasi e questi ultimi più colorati, strutturati e concentrati di quelli della zona del Taburno.
*Ordinario di Enologia, Università Federico II di Napoli
Caro Luigi
il tuo ragionamento voga coraggiosamente controcorrente quando affermi, sostanzialmente, che i veri rischi dell’omolgazione sono da iscrivere nel capitolo della antica viticoltura poco attenta alla sanità della frutta e, ancor di più, succube della quantità, quando cioé il ruolo dell’enologo, in Italia impegnato quasi esclusivamente con le grandi masse prodotte dalle cantine sociali, era sostanzialmente quello di correggere i difetti in cantina. In sintesi, l’enologo correggeva in cantina invece di progettare in vigna.
Sicuramente negli anni c’è stato un miglioramento complessivo della viticoltura meridionale e italiana, ma la mia sensazione è che, tutto sommato, il ruolo taumaturgico dell’enologo non sia venuto meno, anzi, il suo peso è cresciuto in maniera abnorme rispetto all’agronomo e, spesso, rispetto allo stesso commerciale. Anche con uva sana in tanti hanno continuato a correggere, salassare, seppellire nel legno, eccetera, eccetera per restare alle cose lecite.
Ora il punto qual è? Che vogliamo tutti vini migliori e più buoni, sicuramente. Ma anche e soprattutto diversi l’uno dall’altro e questa distanza varietale espressa dalla frutta coltivata in diverse condizioni deve in qualche modo venire fuori quando si stappa. Io non voglio un Piedirosso uguale all’Aglianico e non voglio un Aglianico del Taburno uguale a uno del Vulture e magari a un Merlot di Aprilia.
Siamo sicuri che questo sia successo? Negli ultimi tre anni con le selezioni Touring e nell’attività quotidiana (fiere, degustazioni, verticali, ristoranti) avrò provato non meno di cinquemila vini, tutti buoni e potabili per usare una tua simpatica espressione ma, ti assicuro, sono pochi quelli che ricordo con interesse caratterizzato.
Io penso che si sia passati dall’omologazione per difetto, come la individui tu, a quella per eccesso, perdonami la semplificazione giornalistica. Negli ultimi anni nelle bottiglie c’è stato troppo di troppo perché spesso si è pensato di recuperare il ritardo in modo affrettato e poco consono alle diverse tipologie dei vitigni e dei territori.
Questo è il motivo per cui da più parti si invoca un ritorno alla semplicità, alla finezza espressiva. Naturalmente nessuno con un po’ di sale in zucca può auspicare la rusticità balbuziente e polverosa del passato. Queste sono scorciatoie che possono avere l’ambizione di governare una fetta di mercato di nicchia, ma sicuramente non il mondo vitivinicolo nel suo complesso.
Sono quindici anni che mi occupo di vino e una sola cosa ho capito con certezza: siamo ancora alle prime battute di una storia che tutti speriamo sia scritta bene. Dobbiamo, anzi, dovete studiare sino in fondo il comportamento varietale dei diversi vitigni nelle diverse fasi del processo. Questa ricerca scientifica ci può portare a risultati straordinari come all’ammissione che si, in fondo non basta che un vitigno sia autoctono per avere tipicità e soprattutto piacevolezza e che i blend di una volta forse avevano qualche ragione in più della reciproca correzione dei diversi tempi di maturazione delle uve.
Mi auguro che le regioni meridionali invece di investire solo in triccabballacche e putipù riescando a destinare ingenti somme per la ricerca perché di questo oggi c’è bisogno se si vuole riconquistare un primato vantato spesso in etichetta ma che risale a duemila e passa anni fa.
Quello che io non voglio, però, è raccontare l’inseguimento a un presunto gusto internazionale, non si sa da chi decifrato e vivisezionato, con vini di territorio che non riescono più a riconoscere il cibo del territorio. Perché questo, per me, è il primo parametro ormai da prendere in considerazione.
E su questo, lo so, siamo più che d’accordo.
Insomma, pensavo fosse ora di ritirarsi. Invece è iniziata la vera battaglia:-)
26 Commenti
I commenti sono chiusi.
Le parole del Professore Moio appaiono di buon senso, ma pongono, almeno al sottoscritto, alcuni punti interrogativi che spero possano essere chiariti.
Ad esempio, a cosa si riferisce di preciso, quando parla di una viticoltura non specializzata antecedente gli anni ’90, a rischio omologazione? All’epoca l’aglianico taurasino era inesistente da un punto di vista commerciale, fatta eccezione, sostanzialmente, per un unico produttore. Si riferisce a quello che i contadini producevano per autoconsumo e di cui, noi, non abbiamo traccia?
Ancora, si parla di vini evoluti. Eppure, quando ci si riferisce al prima, e sostanzialmente ad un produttore, ossia Mastroberardino, si prende il suo Taurasi 1968 come paradigma non tanto dell’autenticità (dopo quarant’anni e la ovvia terziarizzazione) ma della longevità dell’aglianico o no?
Infine, alcune pratiche moderne di viticoltura, fittezza degli impianti, potature corte, diradamenti spinti ecc ecc., e soprattutto nel taurasino vendemmiare “per tradizone” dopo i morti (2 novembre) non è altrettanto rischioso quanto a evoluzione dei profumi e omologazione…La prugna “sunsweet” insegna o sbaglio?
Ringraziandovi anticipatamente, saluto cordialmente.
Gustavo Vinaccia.
Non posso che condividere a pieno la tua risposta a Luigi Moio. Ricordo quando prima, durante e dopo il metanolo più della meta dei vini che si assaggiavano avevano evidentissimi difetti dovuti a pratiche agronomiche e di cantina sbagliate.Ha ragione Moio, i vini erano tutti omologati verso il basso. Oggi i vini sono tutti omologati verso l’alto: pulitini, perfetti, con tutte le loro cosine a posto, tanto da non poterli distinguere uno dall’altro, annullando le specificità territoriali e quello che si è costruito in vigna.
Non sostengono ovviamente che è meglio avere un vino un tantino “sporco” ma che sia rappresentativo anziché uno perfettamente integro , ma che non esprime nulla. Non possiamo tornare indietro. Per questo condivido la necessità che la ricerca vada indirizzata verso caratteristiche territoriali che possono esprimersi senza cadere nel “rustico” da una parte e senza omologare verso “l’alto” dall’altra. La strada non è per niente semplice.
Caro Luigi, Caro Luciano,
ho letto con molto attenzione i vostri interessantissimi punti di vista che in molte parti concordano delineando una strada comune: dall’ aglianico si possono ottenere grandi vini di qualità, serbevoli e complessi dal punto di vista aromatico. Tuttavia la paura di Luciano è anche la mia: molti aglianici sono ben fatti, ma molto simili, omologati. Secondo il mio modesto parere abbiamo le conoscenze biologiche giuste per ritornare al passato in quelle pratiche enologiche che rafforzano la componente territoriale legata all’annata. Con analisi microbiologiche e molecolari siamo in grado 3-4 giorni prima di una vendemmia di valutare la complessità microbiologica dell’uva e portare avanti una fermentazione naturale guidata che ci permette di ampliare e rafforzare il quadro aromatico che è anche frutto di una biodiversità microbica delle uve. Quando parlo di biodiversità microbica non intendo solo quella dei lieviti, ma anche quella relativa ad un consorzio di batteri lattici che in condizioni ottimali evita le note “burrose” che si sentono in molti vini prodotti con malolattici innestati. Per non parlare delle contaminazioni incrociate che derivano da questi innesti (es: ceppi di Sporolactobacillus nakayamae isolati solo in Giappone e in Australia contaminanti lieviti selezionati australiani e ritrovati in vini siciliani) Ovviamente questo è il mio punto di vista e fortunatamente anche la filosofia enologica di molti produttori (vedi “Parlano i Vignaioli”, Ercolano 2009) che con fermentazioni naturali producono vini molto interessanti, ma in particolare unici e riconoscilbili dagli altri.
Giancarlo Moschetti
Ordinario di Microbiologia enologica
Università di Palermo
Pur con tutto il rispetto per il cattedratico e studioso Moio, ma non sono assolutamente d’accordo quando sostiene “Tra l’altro questo fenomeno è accaduto anche nelle mitiche aree vitivinicole francesi di Bordeaux e della Borgogna. I grandi vini rossi di Bordeaux e della Borgogna degli ultimi venti anni non sono gli stessi del passato, c’è un’attenzione fortissima all’integrità sensoriale ed al prolungamento della longevità del vino”. Purtroppo mi sembra che anche in Francia, anche nelle due grandi regioni classiche da lui citate, si producano sempre più vini a corta gittata, che piacciano subito, soprattutto a certa stampa specializzata, e non più, ahimé, vini che possano durare negli anni….
No mi dispiace gent.mo professor Moio non posso condividere la sua opinione. Vengo da poco da una degustazione di Chambolle Musigny Les Amoreuses 1928 che mi ha fatto pensare esattamente il contrario. Purtroppo negli ultimi anni la Borgogna ci da vini fin troppo pronti, difficili da immaginare a lunga distanza.
Cordiali Saluti
Giampaolo Giacobbo
Gentile Dottor Moio;
concordo pienamente in ciò che dice, infatti da 10 anni a questa parte è possibile aprire e BERE ottime versioni d’Aglianico, siano esse Vulturine o Campane.
Mi permetto però di evidenziare un piccolo elemento di probabile discussione; a questo punto occorre premetterle che sono un suo giovane collega, opero nel Vulture ma non ho mai avuto la possibilità di lavorare con uve d’Aglianico provenienti dalla zona del Taurasi.
A mio parere, in funzione del boom del vino e dell’Aglianico sono sorte tante aziende nuove le quali hanno presentato al mercato una versione distorta dell’Aglianico, infatti questi vini sono ancora oggi “spremute di legno” coloratissime e tanniche, senza dimenticarci di versioni d’Aglianico “dolcioni e morbidoni”.
L’Aglianico ha origini antiche e per questo bisogna guardare nell’antico per trovare la strada del moderno; perfetto e giusto l’attuazione della viticoltura di qualità alla quale si sarebbe dovuto affiancare il rispetto delle vinificazioni e l’attenzione all’uso del legno!
In parole povere bisogna ricordare ad alcuni nostri colleghi che la barrique è uno strumento di cantina da utilizzare a scopo MIGLIORATIVO e non d’omologazione.
Buon Lavoro;
Fabio Mecca
347 600 33 48
grande prof, primum vivere!
Mi permetto di suggerire, appena sarà in commercio tra qualche settimana, di bere il Terra d’Eclano 2007 di Luigi Moio, a conferma delle perplessità di quanto sopra espresso dal sig. Mecca e di quanto sia verosimile l’approccio all’aglianico di Quitodecimo.
https://www.lucianopignataro.it/a/quintodecimo-il-2007-nel-bicchiere/6856/
Mi permetto di segnalare questo link (giusto per non essere autoreferenziali e non piacersi o commentarsi da solo) a proposito di quanto espresso dal Dott. Mecca, dal degustatore Fabio Cimmino, dopo anteprima Taurasi. Ah, ovviamente in questo caso, i campioni sono stati degustati alla cieca. Visto che qui si è bravi a pontificare, ma non a rispondere….
http://euthimya.spazioblog.it/154735/Taurasi+2005+(reportage).html
:-)
Ci preme una precisazione.
Probabilmente a Fabio Cimmino non è stato detto che il JQN 104 06. é coraggiosamente una provocazione all’interno di Anteprima Taurasi, dello scorso anno, infatti è quello che restava in appena 5 barrique, dalla lavorazione di questo Vino:
http://euthimya.spazioblog.it/158922/I+VIAGGI+%28Aglianico+Taurasi+in+Bianco%29+2006+JOAQUIN.html
:-(
Mentre leggevo i dettagliati e rigorosi interventi, che ho stampato per poterli comprendere più approfonditamente, mi sono ricordato di Mura in Confesso che ho bevuto…
non faccio il sommelier, non faccio il ristoratore, non collaboro a nessuna guida, posso permettermi il lusso supremo dell’ignoranza, della tabula rasa. Questo mi renderà socialmente poco gradito perché starò ai margini delle diatribe sul cuoio di Russia e la ginestra vesuviana, e pazienza. Nemmeno nel più scassato bar di Beaune ammetterò sentori di merde de poule. Dirò solo nome, cognome e numero di matricola se catturato dai nemici e invitato a identificare la rosa canina in un Rouché, o Ruchét. Non dirò più perlage, prise d’écume, bidule, liqueur d’expédition, pupitre, cru, cuvée. Non sarà una grande rinuncia. Continuerò a bere, sarò più impregnato che impegnato, più libero che libro, più d’istinto che distinto, più corto che colto, piú nudo che nodo, piú aperto che esperto, più formato che informato (penso) e deformato (spero), più carnale che canale, più fanale che banale, più bocca che bacca, più sostanza che costanza, più tralcio che stralcio, piú piuma che puma, più ramo che remo, più palato che pelato, più grumo che gramo, più uomo che duomo, piú voglia che doglia, più ballo che bollo, più bello che bullo, più buono che suono, più felce che falce, più campagna che campana, più acino che acido, più mite che mito, più passito che passato, più storia che scoria, più riso che reso, più naso che raso, più luce che duce, più commosso che commesso, più caldo che saldo, più carezza che cavezza, più festa che testa, più gola che gaia, più fisarmonica che filarmonica, più colore che dolore, più tanto che tonto, più avvinto che avvento, più rose che pose.
Datemi quel che volete: Pallagrello o Dolcetto di Dogliani, Condrieu o Vermentino. Potrei stupirvi con parole nuove, ma non siamo a teatro, non datemi niente che mi arrangio da solo. Dimenticavo: gradi Babo, aborto floreale, cloni, nuances, tartrati. Affanculo anche loro.
Ok, ma il senso di quello che vuoi dire qual è? Siamo tutti una manica di s.?
Mi spiego meglio;
mentre leggevo con molta attenzione i commenti non ci ho capito più nulla.
Sì egregio Luciano siete tutti una manica di s.uper eroi, per combattere battaglie non certo semplici, però l’idiosincrasia nasce non nei confronti di chi con rigore scientifico ricerca (che Dio illumini sempre la mente del Professore) e di chi con amorevole professionalità divulga (dottor Pignataro sempre troppo poco lodato), ma alla sottomissione che la ricerca e la dottrina “devono” al mercato.
Oggi la qualità è in alcuni termini che il marketing ci ha imposto:
“prodotto da lievito naturale”, meglio sarebbe “lievito indigeno o selvaggio”, ma perché il cerevisiae è innaturale?;
“prodotto naturale da agricoltura biologica”, ma non è la natura che ha creato i veleni più potenti?.
“OGM-free”, ma l’uomo non modifica la natura da qualche milione di anni?
E poi, tutta questa specializzazione ha cambiato la fisiologia di tanti di noi, se al ristorante ti versano il vino deve partire il nervo simpatico che ti fa roteare il bicchiere, altrimenti sei un disgraziato, e poi naso nel bicchiere per sentire se il vendemmiatore aveva le mani sudate, se dici due cose ovvie sul piatto appena mangiato “sei uno del settore”, no, solo uno che mangia e beve, e tutto questo deve che non capisco.
La conoscenza solo vorrei, come mia nonna, vorrei conoscere personalmente la bestia e la scarola che mangiava.
Vorrei chef-cuochi, in cucina a cucinare, non vorrei chef-p.r. che girano per la sala a raccogliere plauso, vorrei parlare con i loro piatti, non dei loro piatti, non so cosa dirgli.
E poi, non se la prenda con me quelle cose mica sono mie.
Il vino serve anche a rendere più leggeri argomenti complicati.
Mi è rimasto l’ultimo dito di rosso (sangiovese grosso) di Canalicchio (sfuso) lo finisco e vado a dormire.
Prosit
alberto
… Ho letto entrambi i link suggeriti…
spero di poter bere presto una bottiglia di Terre d’Eclano per poter essere maggiormente convinito di quello che ho detto… !!!
mi è molto piaciuto leggere la “graduatoria” di Fabio Cimmino; ancora di più a conferma che se in un progetto “vino” c’ è passione e professionalità e rispetto e interpretazione del Terroir il progetto stesso risulta vincente !!
.. per molti tecnici o produttori è necessario “mettere il vino in barriques nuove” per far si che il prodotto possa diventare magicamente STAR !!!
Il vero risultato è ben altro….. OMOLOGAZIONE E APPIATTIMENTO DI OGNI COSA!!
il mondo del vino è espresso i tempi lunghi, lenti, da stagioni e maturazioni, bisogna saper interpretare l’annata, ricordarsi se è piovuto o meno, quale andamento di temperatura abbiamo avuto dalla fioritura in avanti, assaggiare le uve e immaginarsi quale vino alla fine si può ottenere con quel vigneto; e ammettere alcune volte che il nostro vino, con legno o senza, non potrà essere STAR !
Invece si ragiona al contrario, si pianifica il venduto dell’annata precedente per aumentare del 20% in più il numero di bottiglie da vendere, e quel vigneto, magicamente pur continuando a produrre 1 kg per pianta è capace di far commercializzare 4.000 bt in più !!
Al signor Alberto ricordo che… ” non è tutto oro quello che luccica “; quindi non tutte le persone che utilizzano dati linguaggi hanno padronanza specifica di quello che dicono… molti altri invece; essendo onesti, credendo nel loro lavoro e loro passione, fanno di quel linguaggio il mezzo per arrivare al “pane quotidiano”; per poter raccontare una semplice o immensa emozione…
Affanculo, alcune volte, occorre mandare non i termini ma le persone che le utilizzano in maniera usurpatrice !!!
Buon Lavoro
Fabio Mecca
347 600 33 48
Gentile dottor Fabio sottoscrivo il Suo pensiero!
cordialità
alberto
Intanto, da campano sono estremamente soddisfatto dell’interesse “ultraregionale” suscitato dall’originario intervento del Prof. Moio (Ziliani, Giuliani ed altri).
Da umile appassionato vorrei però sottolineare sommessamente che, oltre al punto di vista scientifico – espresso in molteplici interventi – ed a quello “emozionale”, che pure ha guidato svariate osservazioni, non può essere trascurato l’aspetto delle logiche commerciali, aspetto dal quale non si può prescindere, parlandosi, in fin dei conti, di un “prodotto” che deve essere “consumato”.
E da questo aspetto sicuramente il Prof. Moio, nei panni, sia pur recenti, di produttore, non ha prescisso, laddove, mi pare, ha fatto una scelta precisa e decisa: vini assolutamente riconoscibli per “fattura” e per prezzo, nati in una realtà assimilabile ad uno “chateau” e fortemente caratterizzata dalla figura del “vigneron”, il quale “firma” le proprie etichette, assumendosi la piena responsabilità di quanto contenuto nelle bottiglie.
Mi pare di ricordare che, durante un incontro di presentazione dell’azienda, egli riconobbe, quasi paradossalmente, la più immediata fruibilità dei propri rossi rispetto ai bianchi, ma anche questo, forse, fa parte di un ineccepibile ragionamento di collocazione commerciale: fatto è che quei vini, tipici o non, “francesizzanti” o non, hanno riscosso un enorme successo, a riprova del fatto che, alla fine, è il mercato a decidere.
Salve a tutti, siamo rientrati ieri dalla Francia, abbiamo partecipato alla Remise http://www.laremise.info evento che secondo noi guarda il mondo vitivinicolo con prospettive future, nella stessa settimana c’era Lion Passion e Millesime Bio a Montpellier… una concentrazione davvero interessante, sarebbe bello affiancare a Parlano i Vignaioli in Campania una serie di eventi con queste vedute.
Come d’abitudine faccio sempre un giretto nel sito di Luciano e mi è saltato agli occhi questo bel confronto che leggo da ieri visti gli innumerevoli interventi. Due o tre cose lette mi hanno stimolata nel dire la mia.
Vorrei portare all’attenzione un discorso molto semplice; mio marito prima di essere un professionista del mondo del vino è un grande appassionato e bevitore e questo ha fatto sì che nella nostra casa e nel cerchio delle nostre amicizie siano entrate un numero abbastanza elevato di bottiglie di Taurasi Mastroberardino 1968 appartenenti a tre cru diversi: Montemarano – Castelfranci – Piano dell’Angelo (Taurasi)… queste le entrate e non vi dico le uscite economiche!!! Tre cru prima dei fatidici anni 90 ora in Irpinia non si sa neppure che cosa è un cru! (Sto scherzando che nessuno se la prenda!)
Questi Mastroberardino 1968 sono stati confrontati in varie occasioni e con personaggi di varie provenienze, con vini di quegli anni francesi (Bordeaux e Borgogna – Chateau Petrus, Chateau Haut-Brion, Leroy) e italiani (Brunello e Barolo – Biondi Santi, Montefortino) e per dirla tutta anche con vini spagnoli della zona della Rioja (Lopez). L’Aglianico è sempre uscito fuori a testa alta e in molti casi è risultato il vino meno evoluto di fronte agli altri, nel senso che trasmetteva ancora una cera giovinezza, qualche altro era nettamente in dirittura di arrivo. Questo ci insegna qualcosa e cioè che quell’aglianico prodotto da una viticoltura non specializzata e per riprendere le parole del Professor Morio: “improntata soprattutto all’ottenimento di alte rese, addirittura in alcune aree le coltivazioni erano consociate. I vini erano prodotti da uve spesso non perfettamente mature e non perfettamente sane. In quegli anni non si dava molto peso alla qualità dell’uva…” ha superato i quaranta anni di vita in splendida forma. Forse una viticoltura sana anche se non specializzata come oggi e quindi senza l’utilizzo di prodotti di sintesi, concimazioni e quant’altro associata ad un’enologia sicuramente di maggior rispetto nei confronti di tutti ha preservato l’annata 1968 e poche altre successive ad una fine certa! (visto il numero estremamente limitato di produttori nell’epoca e la difficoltà a reperire altre vecchie annate non posso testimoniare su altre).
Noi a casa non abbiamo una palla di vetro che ci possa dire come saranno dopo quaranta anni gli aglianici prodotti dopo gli anni ’90, oggi si punta a prodotti di pronta beva e non posso neanche sostenere che sia una cosa sbagliata perché altrimenti nessuna cantina potrebbe avere una vita commerciale ma mi permetto di dubitare che gli aglianici prodotti da culture intensive, basse rese e stressati in cantina dall’enologia possano darci tanta soddisfazione nel futuro.
Noi quando sosteniamo di produrre vini naturali e veniamo banalmente attaccati con frasi del tipo che “i vini naturali non possono esistere” intendiamo che con filosofie come la nostra l’industria enologica e quella chimica non avrebbero gli aumenti di fatturato che di converso hanno distrutto la nostra agricoltura e il sapore di cibo e vini.
Ho bevuto il vostro le fole e ne sono rimasto entusiasta.
…. e non solo, ma anche l’Adam (un vero Greco!) e l’incredibile Sophia, emozione allo stato puro!
Daniela, con tutta la simpatia e la stima che mi legano a te e ad Antonio, vi dico: andate avanti, avanti, avanti sulla strada della ricerca, nei vostri vini, della suggestione e del coinvolgimento emotivo; tanti altri sono sulla vostra lunghezza d’onda e “Parlano i vignaioli” è stato un happening non solo di vini dell’anima, ma soprattutto di vignaioli autentici, e chi ha snobbato la manifestazione non sa quello che si è perso.
Lasciamo ad altri l’erudizione, e teniamoci la vera cultura della terra!!
Voglio riservarmi un ultimo intervento. prima di mettere la parola “fine!” a questo corollario di pareri e suggerimenti vari. Abbbiamo discusso ampiamente dell’Aglianico in terra irpina e magari non tutti sono d’accordo sulla sua enorme potenzialità. Affermo ciò, anche perché ho letto su questo stesso blog le schede di presentazione a proposito delle “verticali” sui vini di Caggiano e Molettieri, non propriamente lusinghiere . Ebbene, fermo restando che io sono del parere che l’Aglianico campano resta sempre uno dei migliori vitigni del mondo, rivolgo un’ultima domanda al prof. Moio (il quale mi è debitore ancora di una risposta ): non si potrebbe sperimentare in zona il “Pinot noir?” Non sembri un’eresia quest’ ultima ipotesi, perché se le mie riminiscenze agronomiche non mi ingannano , unite ad un prolungato soggiorno dalle parti di Macon (oltre a quello fatto nel Libournais) questo vitigno (molto difficile da coltivare senz’altro) predilige escursioni termiche, zone ventilate e non molto calde (questo perché lo indurrebbe a maturare in fretta a scapito dell’acidità), altezze consistenti, niente piogge ( anche perchè i suoi piccoli acini hanno una buccia sottile e soggetti all’attacco dell’umidità e delle muffe) e terreni mineralli. Ora,a parte il problema delle piogge, il “terroir” irpino, e specialmente quello dalle parti di Tufo, non le sembra l’ideale? D’altra parte in Italia lo si coltiva dappertutto, anche in Sicilia con quel caldo, anche se ha trovato la sua terra di elezione soprattuto nell’IOltrepo pavese (secondo territorio al mondo ,dopo la Borgogna, per estensione e coltivazione) ed in parte nel vicino versante piemontese, nell’Alto adige (qui chiamato “Blauburgunder), nel Trentino e nel Veneto. Se pensa di delucidarmi, le sarò grato. Grazie.
… tra qualche anno verranno commercializzate le prime bottiglie di Pinot Nero prodotto a 850 metri sul Vulture… A PIEDE FRANCO !!
ma… questa è un’altra storia !
Buon Lavoro
Fabio Mecca
347 600 33 48
Gentile Sig. Malgi,
le chiedo scusa se non rispondo ai suoi quesiti su questo blog, richiederebbero tempo ed approfondimenti tecnici complessi. Sarò lieto, invece, di approfondirli e discuterli presso la mia sede universitaria dove, tra l’altro, se lei vorrà potrò fornirle anche lavori scientifici specifici.
Il mio indirizzo di posta elettronica è il seguente: [email protected].
Leggere gli interventi che si sono susseguiti su questo sito è stato estremamente utile ed interessante, un momento di confronto che io ritengo molto importante per tutti gli appassionati di vino e per tutti gli operatori della filiera.
Ovviamente l’invito per un eventuale incontro di approfondimento e di discussione è rivolto a tutti coloro che ne hanno voglia. Sono a loro completa disposizione per sviscerare ed approfondire ogni argomento presso il mio studio all’Università.
Grazie e cordiali saluti a tutti.
Luigi Moio
ottimo lo scambio tecnico/giornalistico sull’argomento perchè si dimostra che attraverso un network si possa ragionare e approfondire tematiche tecniche non facilmente presenti in sedi istituzionali competenti che a mio avviso hanno abdicato la discussione ad una più comoda interpretazione burocratica delle scelte del comparto vitivinicolo campano. Chi vi parla fa parte di una di queste istituzioni.
ho letto le diverse opinioni e credo si possa annunciare un link dedicato aperto ad addetti ai lavori – tecnici, ricercatori,agronomi , curiosi – su tutte le problematiche tecnico-scientifiche che sono tante in una materia affascinante come la vitivinicoltura che passa per la biologia, l’agronomia, la fisiologia,la meteorologia, la pedologia, la chimica., la tecnologia,….
si potrebbe aprire un forum di discussione permanente e perchè no attivare seminari all’uopo predisposti anche ricorrendo ad una forma di autofinanziamento visto i tempi di crisi che ci attraversano.
mi riservo di fornire un contributo tecnico sull’aglianico nei prossimi giorni, comunque complimenti per la trasmissione!!!!!
giovanni pirozzi
Concordo pienamente con quanto detto da Luciano.
Secondo me, oggi sono molte le lacune che affligono il sistema produttivo viticolo-enologico, dall’impianto dl vigneto alla commercializzazione dei vini.
Per esempio, anno dopo anno si assiste all’aumento delle uve raccolte meccanicamente con conseguenze deleterie per la qualità dei vini (in particolar modo i vini bianchi); tecniche di vinificazione non adatte a determinate cultivar; per non parlare dell’utilizzo indiscriminato di lieviti commerciali che provocano un appiatiimento delle caratteristiche sensoriali dei vini, ottenendo profumi non tipici, che non rispecchiano ciò che può conferire un territorio vocato.
Le università dovrebbero impegnarsi maggiormente nell’apportare al settore conoscenze utili al miglioramento di tutta la filiera ed evitare lavori di ricerca che restano fine a se stesse, non portanti a risultati concreti perchè non applicabili “nella pratica”.
Quindi, sarebbe bene, una maggiore sinergia tra enti di ricerca e aziende vitivinicole, in modo tale da sfruttare al meglio le risorse umane ed economiche che abbiamo a disposizione.
Dott. Vito Mezzapelle