Il caciocavallo ancestrale degli Alburni
Per gentile concessione dell’autore, rilanciamo questo bel reportage su una delle realtà più straordinarie e meno conosciute della Campania pubblicato sul sito gastronomico Il Mangione. Un grande esempio di curiosità umana e di biodiversità produttiva che resiste nonostante i regolamenti comunitari, lo spopolamento delle aree e l’assedio dei cinghiali. Aggiungiamo come informazione che il primo ad aver scoperto e valorizzato queste produzioni è Antonio Madaio, che oggi offre ai visitatori e ai clienti una bella struttura a Castelcivita dove caciocavalli e molti altri formaggi del territorio si affinano. Anche grazie a lui e alla sua azienda, presente anche a Eboli, questa antica tradizione si è potuta mantenere negli ultimi quindici anni. Buona lettura.
di Andrea Guolo
Un secchio, un pezzo di legno, una bacinella d’acqua bollente per la filatura e una d’acqua fredda per tenere la forma. Non c’è tecnologia dietro la produzione del caciocavallo podolico che si effettua all’ombra degli Alburni, le alte montagne che separano il Cilento dall’entroterra della provincia di Salerno. Il processo segue un copione scritto secoli fa dai primi casari e portato avanti oggi dai loro discendenti, senza alcuna modifica. Il latte, raccolto e fatto cagliare il giorno prima, viene lavorato al mattino successivo esclusivamente a mano, con tanta maestria e zero macchine, fino ad ottenere la celebre forma ovale e dalla superficie liscia, con i due nodulini superiori uniti da una corda e messi a stagionare “a cavallo di una pertica”, particolarità da cui deriva il nome del cacio.
Siamo nel cuore di uno dei parchi nazionali più belli d’Italia e nel comune di Ottati, a pochi chilometri dal mare cristallino di Punta Licosa, il paesaggio si fa improvvisamente alpino. Mandrie di vacche al pascolo si contendono il poco fieno che la calura di agosto concede loro. È il mese meno prolifico per la raccolta del latte. “In primavera – racconta Gennaro D’Urso, il casaro che con la moglie Rosetta conduce l’agriturismo La Fattoria ad Aquara, un “vero agriturismo” e non un hotel dal maquillage agreste – arriviamo a produrre quattro/cinque forme al giorno. Adesso più di una non si può fare, il latte prodotto dai bovini non ce lo consente”. Sono vacche bianche, di razza podolica, formidabili per capacità di adattamento all’ambiente e alle variazioni climatiche. Il latte che forniscono, con i suoi profumi inconfondibili, è ideale per la produzione di questo formaggio. Sarebbe anche un’ottima razza da carne: purtroppo i gusti del consumatore, che predilige bistecche tenere e dal sapore appena pronunciato, ne contrastano la diffusione perché la podolica è piuttosto forte e strutturata.
Gennaro porta all’esterno la “strumentazione”. Prende la cagliata del giorno prima, ben fermentata e con i buchetti già visibili, e la taglia a pezzi, gettandola in un contenitore di legno al cui interno è stata inserita una più comoda (e igienica) bacinella di plastica. Quindi versa l’acqua bollente e a mani nude inizia la lavorazione, aiutandosi soltanto con un lungo attrezzo ligneo di cui ignoriamo il nome. Un comune mortale rischierebbe l’ustione di terzo grado, Gennaro invece ha alle spalle vent’anni di esperienza e un callo talmente spesso da permettergli di procedere senza incertezze. Qualche minuto per amalgamare la pasta, poi il caciocavallo inizia a prendere forma. È artigianato caseario quello che si presenta ai nostri occhi. “La cosa più difficile da realizzare non è la forma del caciocavallo, bensì la lavorazione della ricotta” racconta Gennaro. Il vero punto critico però riguarda la fase precedente, quella con cui si ottiene la cagliata. Il latte infatti dovrebbe essere portato a temperatura con l’utilizzo di moderni fornelli a gas o elettrici, secondo le normative igieniche e sanitarie. Così però si perderebbe il vero sapore del caciocavallo podolico artigianale, legato a una particolarità: il latte viene fatto scaldare su un fuoco di legno d’ulivo, che gli conferisce quel leggero aroma di fumo e da cui dipende anche la formazione della patina gialla. Insomma, il fornello sarebbe la morte del prodotto così come è stato concepito nei secoli e i casari fieramente vi si oppongono. Lo devono fare in silenzio, perché temono una pioggia di controlli e rischierebbero di trovarsi da soli a fronteggiare una battaglia più grande di loro, senza poter contare su quel sostegno diffuso che ha favorito il salvataggio di altri prodotti critici della nostra gastronomia (si pensi al lardo di Colonnata, o alla stessa pizza cotta nel forno a legna).
È anche per questo che i produttori di caciocavallo podolico non sono riusciti a superare i confini geografici del Cilento e quelli dimensionali della ditta individuale. Scontano un peccato originario che li espone a troppi rischi: meglio dunque operare con prudenza e vendere ai soli appassionati, evitando la pubblicità a mezzo stampa che potrebbe rivelarsi un boomerang. Ma si tratta di un circolo vizioso. Perché senza comunicare l’eccellenza del prodotto e la sua storia, aumenta il rischio della sua stessa fine silenziosa. La soluzione consisterebbe nella costituzione di un caseificio sociale, impegnato nella raccolta del latte, nella lavorazione artigianale su scala più ampia del prodotto e nella stagionatura in spazi organizzati, investendo una parte degli utili nella comunicazione a livello internazionale (fiere, eventi stampa, quindi potere contrattuale con le istituzioni) e nella commercializzazione. Sarebbe però la fine del sistema tradizionale di produzione, quello del legno d’ulivo. E poi c’è un limite strutturale legato all’assenza di tecnologia. Perché se per la produzione di alcuni formaggi (si pensi al Parmigiano) la costituzione di caseifici sociali è un fatto quasi naturale, considerando gli investimenti occorrenti per le macchine, per la produzione di caciocavallo bastano due mani e tre recipienti.
In passato qualche tentativo è stato operato, senza successo. Racconta un allevatore di podolica, Antonio Sorice: “Oggi non sarebbe più possibile, dovrebbe intervenire qualche istituzione in prima persona. Noi allevatori viviamo soltanto grazie ai trasferimenti comunitari e mancano del tutto i fondi necessari per dare il via a una realtà consorziale”.
Così, in assenza di un’organizzazione commerciale, la soluzione consiste nel viaggio e nell’acquisto del prodotto in prima persona. Trovarlo è più facile di quanto si possa pensare: basta recarsi in un comune della zona, per esempio a Ottati, chiedendo al bar l’indirizzo di un allevatore di podoliche che si fa il caciocavallo in casa. L’altra soluzione consiste nella Pro Loco, che conosce tutti gli indirizzi. Il prezzo giusto va dai 13 euro/kg per quello più giovane ai 15 per quello stagionato. Non è tanto, se si pensa che la resa del caciocavallo è molto bassa, appena un chilo di formaggio per dieci chili di latte lavorato. I clienti? “Arrivano, arrivano – racconta Gennaro il casaro – Noi vendiamo soprattutto a gente di Napoli, Salerno, qualcuno di Roma. Una decina di anni fa spedivo le forme a Bologna tramite corriere espresso, oggi mi accontento della vendita diretta”. E forse è meglio così. Perché soltanto una visita al luogo di origine, magari assistendo in prima persona alla produzione (avviene alla mattina) permette di comprendere davvero cos’è il caciocavallo degli Alburni.
Quanti sono i superstiti, i produttori di caciocavallo podolico rimasti in attività nell’area degli Alburni? Alessandro Capozzoli, vicesindaco del comune di Ottati e storico sostenitore della loro arte, snocciola qualche cifra. “Anni fa, stando alle domande presentate da parte degli allevatori per il pascolo in quota, erano 47. Oggi forse qualcuno in meno. La buona notizia è che sono tutti giovani e della zona, il che testimonia che il mestiere non è in pericolo. Anzi, stiamo assistendo a qualche interessante tentativo di diversificazione”.
Come quello di Pietro Pugliese, poco più che ventenne, che ha affiancato alle vacche podoliche un allevamento di capre. “Talvolta – continua Capozzoli – lo aiuta la fidanzata. Il fatto curioso è che la ragazza vive a Milano e sembra essersi ambientata benissimo tra queste montagne”. È quasi scomparsa invece la pastorizia, altra attività storica del territorio. Spopolamento, questioni economiche e agenti esterni sono i maggiori nemici degli allevatori negli Alburni. La costituzione del parco nazionale del Cilento, riconosciuto come patrimonio dell’umanità dall’Unesco, li ha in parte aiutati, concedendo loro il rimborso per danni da fauna. Ma gli assalti di lupi e soprattutto cinghiali, specie protetta, stanno mettendo in ginocchio altre attività. Per esempio le piccole coltivazioni di nicchia, per le quali la quantificazione del danno economico è irrisoria. Così i contadini, scoraggiati dai ripetuti blitz dei cinghiali, stanno abbandonando le attività. “Aver protetto il cinghiale – conclude Capozzoli – è stato un errore, con l’aggravante dell’introduzione di una specie non autoctona, di origine ungherese. Oggi il territorio è sotto assedio, con danni enormi per l’economia dei cittadini e della stessa provincia di Salerno, costretta a riconoscere rimborsi per i numerosi incidenti d’auto che si verificano in zona a causa della presenza degli animali. Senza la caccia, è saltato l’equilibrio stabilito dall’uomo”.