Idylio a Roma: la cucina d’autore fusion di Francesco Apreda
Idylio al Pantheon Iconic Hotel Francesco Apreda
Via di S. Chiara, 4/A
Tel. 06.87807080
[email protected]
Aperto la sera dal martedì al sabato
Chiuso domenica e lunedi
di Raffaele Mosca
Nel mezzo dell’Urbe: due passi dal Pantheon, da Santa Maria sopra Minerva, dal foro che fu scenario delle Idi di Marzo. Ma la sensazione, per la prima volta dall’inizio della pandemia, è di essere molto distanti da Roma e dall’Italia, forse anche dall’Europa, perché questa sala dall’arredamento un po’ bizzarro, con cucina a vista, pochi tavoli estremamente distanziati, lampadari arzigogolati che contravvengono al dogma del
minimalismo negli indirizzi gourmet italiani, starebbe bene a Londra, New York, forse anche a Tokyo o Shanghai. Non c’è un panorama da contemplare: per averlo bisogna salire al bistrot all’ultimo piano dell’albergo. Ma è meglio così: la relativa neutralità dello scenario permette di concentrarsi su di un’esperienza unica nel contesto capitolino: pienamente “fusion”, frutto di un percorso realmente internazionale, che ha avuto Roma come ultima destinazione.
Idyllio by Apreda è il ristorante perfetto per cominciare con il piede giusto il 2022, l’anno che, almeno sulla carta, dovrebbe traghettarci fuori da questa pandemia e permetterci finalmente di tornare a respirare un po’ d’aria di mondi lontani (guerra permettendo, il va sans dire). Nato nel 2019 in seguito alla fine di un sodalizio importante, ovvero quello tra il patron dell’Hassler Roberto Wirth e lo chef Francesco Apreda, partenopeo d’origine con esperienze a tra Londra e Tokyo, ha tutte le carte in regole per essere, insieme al Pagliaccio di Anthony Genovese, il ristorante più cosmopolita di questa Roma che, dopo due anni, ricomincia finalmente a parlare un po’ d’inglese, un po’ di francese e una ”nticchia” di tedesco.
La cornice del piano terra del Pantheon Iconic, boutique hotel aperto qualche anno fa, ben predispone a un percorso che, nel caso del menù Iconic Signature (120 a cranio, con possibilità di aggiungere altri piatti per 20 euro cadauno), spazia tra Giappone, India, Francia e Centro-Sud della nostra penisola, partendo da un entreè che mette subito in evidenza la grande maestria di Apreda: per niente omologato, intellettualmente stimolante, riassume tutto ciò che segue.
Stuzzicante il gioco umami dell’alga wakame poggiata sulla focaccia; assolutamente geniale l’abbinamento tra il cocco e il broccolo romanesco; goloso l’uovo di quaglia in tempura, che esplode in persistenza con la nota piccante del wasabi.
Sulla stessa lunghezza d’onda la capasanta impanata con aioli e tartufo nero, servita con un infuso di funghi shiitake che mi riporta dritto ai ristoranti kaiseki di Kagurazaka, l’ex quartiere a luci rosse diventato distretto con la più alta concentrazione di stellati a Tokyo e forse nel mondo. Da quelle mecche gastronomiche del Sol Levante alla Campania il viaggio non è breve, ma Francesco ci teletrasporta subito sull’isola d’ Ischia con un altro antipasto di mare, che, però, sa in tutto e per tutto di terra: San Pietro all’ischitana, ovvero poggiato su di un fondo di fegatino di coniglio, bagnato nel brodo del coniglio e completato da verza e fagioli. Un concentrato di sapidità – non a caso l’altro menu si chiama “sapidità essenziali” – senza traccia di sale aggiunto.
Le ricette di Francesco Apreda all’Idylio
Si rimane sospesi a metà strada Giappone e Italia con i tre primi: i cappelletti ripieni di parmigiano sono serviti in un brodo di tonno freddo per esaltare tutte le componenti umami; i capellini aglio, olio e peperoncino con anguilla affumicata giocano sul contrasto tra gli italianissimi pomodoro e peperoncino e una cottura della pasta il risotto cacio, pepi e sesami porta in dote il bagaglio acquisito nell’ultima esperienza di Apreda pre-pandemia: una consulenza in India che gli ha permesso di viaggiare nel paese e di imparare a gestire al meglio le spezie.
L’India ricompare anche nell’unico secondo: un pollo servito alla maniera francese, che viene, però, marinato in stile tandoori per ammorbidire le carni. Con la sola differenza che la salsa tandoori è a base di yogurt e spezie, mentre qui la marinatura avviene in una salsa di peperoni per richiamare un must della tradizione romana. Il risultato è riassumibile in: carni burrose, grande persistenza aromatica, godimento notevole senza affaticamento.
Un pre-dessert che spinge sull’acido, e poi si chiude con la mozzarella di bufala dolce: altro omaggio alle radici campane mai rinnegate, “ anche se Roma – riferisce Apreda a fine cena – è la città più bella del mondo. Dove puoi andare dopo essere stato qui?!”
Sul fronte dei liquidi, ci lasciamo guidare in un percorso discreto – ma non stupefacente – che parte da un Franciacorta, passa per un raro orange di Borgogna e un altro macerato di Joaquin, produttore irpino fuori dai gangheri, per chiudere con un taglio bordolese altoatesino di buona scorrevolezza e un ottimo Jurancon doux, da uve Petit Manseng e Gros Manseng. Volendo, si può pescare da una carta molto ricca, frutto di investimenti cospicui da parte della proprietà, che ha già agguantato il Grand Award di Wine Spectator.
CONCLUSIONI
Ed è cosi che arriviamo alla fine di un percorso che dimostra – semmai ce ne fosse bisogno – che per fare cucina d’autore “fusion” non basta grattare qua e là un po’ di katsuoboushi: occorre aver appreso certe tecniche sul luogo e non dai libri; aver viaggiato, assaggiato, senza, però, dimenticare da dove si è partiti e dove ci si trova. Così si riesce a metter su un percorso che guarda più in là del solito cantuccio in cui si rannicchiano tanti chef romani e non, ma non taglia i ponti con la tradizione. Francesco Apreda riesce in
quest’intento e dà vita a un’ esperienza intellettualmente appagante, fatta di contaminazioni e di cortocircuiti culturali, che ha pochi eguali nella capitale e in tutt’Italia.
Report 10 marzo 2019
Idylio al Pantheon Iconic Hotel Francesco Apreda
Via di S. Chiara, 4/A
Tel. 06.87807080
[email protected]
Aperto la sera dal martedì al sabato
Sono tre i punti di approdo in questa saletta da 25 posti con cucina a vista ma anche no perché si oscura come i vetri degli interrogatori dei polizieschi americani. Tre temi, insomma: quello della separazione come rinascita, la superiorità gastronomica di Roma su Milano e la ragione d’essere della cucina d’autore in questo momento.
La separazione, come è noto, è quella di cui tutto il piccolo mondo gastronomico ha parlato nei mesi scorsi, quando Francesco Apreda ha deciso di lasciare l’Hassler che aveva avviato ben tredici anni fa conquistando una stella e facendone uno dei clamorosi due stelle mancati-nonsièmaicapitoXchè.
L’uno si divide in due è un concetto filosofico complicato su cui non vale la pena di soffermarsi in questa sede, diciamo che secondo alcuni pensatori è l’essenza del processo della dialettica. Ci sono separazioni consensuali, cioé quelle che arrivano per stanchezza e sfinimento, e quelle in cui una parte si sente prigioniera dell’altra, non è più soddisfatta, e tende a liberarsi lasciando l’altra nel dolore, nel rancore o nella depressione.
Teniamo per noi in quale casella inserire la separazione fra Apreda e l’Hassler, ma su una cosa non c’è dubbio: non vi erano altri traguardi possibili oltre quelli prestigiosi raggiunti, ormai né per l’uno, né per l’altro.
Il secondo tema è il mantra, pompato da un certa critica milanese di nascita o di adozione da sempre affetta da complesso di inferiorità verso le dimensioni della Capitale e la ricchezza delle cucine regionali, secondo cui Milano sarebbe diventata una sorta di Mecca gourmet dando conto di aperture su aperture ma poi dimenticando di citare le chiusure su chiusure. E che se è vero che la metropoli lombarda stia vivendo un grande momento, per fortuna aggiungiamo noi, è anche vero che è falso che Roma è ferma. Anzi, crediamo che mai sia stata così ricca di proposte, di possibilità di scelta per gusto e per tasca, di miglioramento qualitativo della offerta tradizionale nonché della sua riscoperta.
Pensiamo che a Roma non si sia mai mangiato così bene come negli ultimi anni e se lo spirito dei romani in questo momento è un po’ depresso state sicuri che a tavola trova consolazione. Finché il pianeta non sarà distrutto da Trump&Soci, Roma sarà sempre Roma anche se in questo momento ha un po’ di influenza.
Prova ne è il progetto del gruppo Tridente Collection che non riguarda solo questo albergo, dove pure è previsto a breve l’uso della terrzza, una delle più belle, se non la più bella di Roma, per fare la pizza (il forno Marana è già arrivato) e cucina di tradizione. La scommessa su Apreda riguarda infatti tutti gli alberghi del gruppo, a ciascuno dei quali sarà data una sua precisa identità gastronomica rinverdendo la tradizione della grande cucina d’albergo a Roma iniziata un quarto di secolo fa da Heinz Beck.
Riportiamo un passo decisivo del comunicato messo a punto dalla MgLogos: La struttura è la punta di diamante del Gruppo Tridente Collection – corporate che vede al timone i fratelli Emidio e Fabrizio Pacini e Andrea Girolami – per il quale, d’ora in poi, Apreda ricoprirà il ruolo di Chef Ambassador. “Per il Gruppo Tridente Collection – spiega Emidio Pacini – Idylio rappresenta il passaggio evolutivo di un percorso iniziato nel 2013. Tra i nostri obiettivi c’è anche quello di creare format di ristorazione che siano dei plus per le nostre strutture. Per questo abbiamo deciso di affidare a Francesco Apreda, con il quale si è stabilita un’immediata sintonia, non solo le chiavi di Idylio ma anche il ruolo di Chef Ambassador di gruppo. Siamo convinti che l’hotellerie, qualificante biglietto da visita di una capitale mondiale come Roma, debba trovare nella proposta gastronomica un elemento di preminente valorizzazione dell’unicum ricettivo. Per questo, insieme a Francesco, lavoreremo per dare a ognuno dei nostri alberghi un’identità culinaria precipua che trovi, nell’appassionata ricerca dell’eccellenza, il proprio minimo comune denominatore”.
Ma tutto questo di cui abbiamo parlato sino a qui può anche non interessare nulla agli appassionati e ai gastronomi che guardano solo il piatto e che vogliono sapere, alla fine, cosa si mangia in questo posto. Giusto o sbagliato che sia questo approccio specialistico e poco umanistico, dobbiamo accontentarli dicendo che sono stati approntati tre percorsi degustativi messi in inglese (si, questo fa un po’ milanese): Inside The Pantheon (6 portate 120 euro) come omaggio a Roma; Iconic Signature at the Pantheon (7 portate a 140 euro) con i grandi classici dello chef e Seasons at the Pantheon (8 portate, 160 euro) . Insomma, facendo un po’ la media con il vino, mangiare qua costa sui 200-250 euro.
Arriviamo dunque al terzo tema, quello della cucina d’autore che è fortemente in affanno in Italia e al cui declino ha sicuramente contribuito la televisione che ha dato una visione distorta di questo lavoro ai giovani insegnando loro che l’estetica viene prima del gusto e che è il cliente che deve servire lo chef e non viceversa. In affanno perché comunque costa troppo e le guide specializzate mettono ai vertici sempre e solo locali costosi che la stragrande maggioranza degli itaiani non si può permettere (e credo neanche i gilet gialli in Francia) e in affanno perché spesso e volentieri appare completamente sradicata dal territorio con esibizioni provinciali di materie prime costose e piovute dai luoghi più lontani, proposte che cozzano con quello che pensa la stragrande maggioranza degli italiani che è attaccata ai piatti identitari dei luoghi in cui si nasce.
Insomma, la cucina d’autore deve avere anni di gavetta alle spalle, saper parlare al cliente, tenere perfettamente insieme la memoria le esperienze fatte in giro per il mondo e coniugare tradizione e innovazione in modo da fonderle senza giocare di continuo a rimpiattino.
Quello che succede nei piatti di Francesco Apreda. Uno, per capirci, che se usa alghe e tecniche giapponesi è perché ci ha lavorato tre anni, non perché li ha comprati da un catalogo dopo averli scoperti su Instagram.
LA CENA
Conoscendo la mia anima tradizionalista, da buon napoletano oltre che da professionista, Apreda mi ha portato per mano tra piatti che pescavano nel menu dedicato a Roma e in quelli della stagionalità. Come sempre ci siamo alzati soddisfatti, di più: contenti.
Di questo cuoco ci piace in primo luogo la capacità di estrarre il sapore della materia prima in modo incredibile. Le spezie, le erbe e le alghe con cui gioca in continuazione non coprono i sapori, ma li esaltano ed è questa la sua abilità che io ritrovo solo in Anthony Genovese allo stesso livello. Non è una, ma sono dieci, quindi, anche venti che vengono usati in una costruzione al tempo stesso barocca e moderna del piatto, perché le creme sono quasi sparite, come pure il sale. Anzi. Quasi tutto il percorso era senza sale.
La seconda cosa che abbiamo trovato eccezionale è stata la tecnica di cottura: nel coccio (gallinella in italiano), nel rombo e nel pollo, assolutamente cucinati interi e poi ripassati sono stati piatti che mi fanno salivare ancora adesso mentre sto scrivendo.
E il rimando napoletano è nel primo brodo che altro non è che un ragù tirato sino allo spasimo e poi filtrato e arricchito con spezie. O nelle candele, qui erroneamente chiamati ziti, con il cipollotto che alla fine, ma solo alla fine, ti fa spuntare il sapore della genovese. Due colpi efficaci, da maestro, di perfetto equilibrio, mai piacioni.
Il pollo poi gioca la sua partita con quello newyorchese di NoMad, lo fa senza tartufo e foie gras ma si presenta ugualmente in maniera indimenticabile.
Il rimando romano è nella vignarola e nella carbonara che, anche in questo caso, diventano riconoscibili solo alla fine, come per magia, quando già ti stai chiedendo ma…
Cucina d’autore dunque? Si. Se ha alle spalle grande esperienza ed è capace di farmi provare cose nuove, di non annoiarmi.
Per le conclusioni scendete giù, guardatevi prima i piatti a cui ho dato i voti :-)
CONCLUSIONI
Una esperienza unica che adesso ha il vantaggio di avere Apreda concentrato e creativo. Speriamo però che questa tensione resti adesso che dovrà occuparsi anche di tutto il resto della partita. La scommessa è questa. Intanto qui, come al Pagliaccio, è davvero un luogo da non perdere perché grazie alla tecnica Oriente e Italia si fondono, o meglio, l’Oriente fa da buona spalla alla tradizione italiana arricchendola di quella complessità olfattiva e gustativa che progressivamente ha perduto dagli anni ’70 in poi. La sala e la carta dei vini sono affidati ad Alessandro D’Andrea, giovanissimo e con un grande futuro se saprà restare fuori dalle chat claustrofobiche in cui è precipitato qualche suo collega. La carta dei vini va ampliata un po’ soprattutto verso Sud (più bianchi della Campania e soprattutto più rossi della Puglia ed entrambi per la Sicilia). Manca, e va introdotta, l’attenzione all’olio d’oliva come grasso identitario italiano da mettere a tavola. Finale scoppiettante con la pastry chef Edvige Simoncelli che consideriamo in questo momento al top in Italia augurandoci di non vederla mai firmare nè un cornetto Algida nè un panettone Alemagna.
Ma già, che stupido, Francesco Apreda ve lo vedete con la sua immagine dietro i tre ruote che portano le patatine industriali in una salumeria al Testaccio?
Idylio Roma Francesco Apreda
2 Commenti
I commenti sono chiusi.
Da Francesco a Francesco un augurio di vero cuore per questa nuova avventura innanzi tutto per la sua bravura ma anche per il sorriso solare dei suoi occhi lasciano intravedere un animo nobile e cordiale.PS.D’accordo sulla vitalità di Roma.Non solo a Prati dove gravito ma anche alla Balduina dove abito.Un tempo quartiere dormitorio oggi invece vede l’apertura tanti locali interessanti sia per giovani che per gente come me più matura.FM.
Tipo?