I nove vini che hanno fatto conoscere il Sud fuori dal Sud
Pensavo ad un post di alleggerimento, è stato uno dei più complicati. Per realizzarlo ho dovuto consultare vecchie guide, fare diverse telefonate agli amici che ringrazio per le indicazioni e le precisazioni.
Due lezioni.
La prima è che la storia vitivinicola del Mezzogiorno deve essere ancora studiata e scritta nei dettagli, con cifre e riferimenti precisi usando le fonti, come si diceva un tempo, e non le sensazioni umorali del momento. Per farlo è necessario lo slalom tra le stupidaggini, le imprecisioni e anche le bugie, che la maggioranza delle aziende scrive su se stessa in depliant o che racconta durante le visite. La seconda è che internet serve per cogliere idee, tendenze, indicazioni anagrafiche, ma è assolutamente fuorviante quando si tratta di ricostruire qualcosa degno di finire negli scaffali con buona pace degli assatanati del 2.0
Allora, questi sono, ovviamente a mio parere, i vini che hanno cambiato la percezione del vino del Sud fuori dal Sud e poi dentro il Sud. Quelli cioé che hanno forgiato quella carica comunicativa necessaria a far conoscere il territorio dove è nata la viticoltura europea e che, secondo molti, si accinge ad essere la nuova frontiera grazie alla varietà del suo territorio e del patrimonio genetico, le fertilità delle aree campane, vulturine ed etnee, la dimensione produttiva di Puglia e Sicilia. Prima di questi vini, il Sud era un mare di sfuso e di mosto, a volte rovesciato nelle strade dai contadini francesi esasperati dalla concorrenza low cost, al netto ovviamente di alcuni chicche, necessarie ad una ricostruzione storica, ma dalle quali non è gemmata la spinta che cerchiamo di individuare in questo post.
Patriglione, 1975 Cosimo Taurino
Questa storia ricorda i libri di fantascienza di Julius Verne. Già, perché 35 e passa anni fa, prima della crisi del metanolo, era assolutamente inconcepile pensare che un vitigno del Sud avrebbe potuto avere dignità di bottiglia importante da esibire con orgoglio a tavola. E ancora più fantascientifico assistere all’incredibile successo di questo vino, blend tradizionale di negroamaro e malvasia, ancora oggi ineguagliato. Il vero blend è l’unione tra Cosimo Taurino e Severino Garofano, accoppiata tra vigneron ed enologo da manuale, capace di toccare il giusto equilibrio.
Graticciaia 1986, Agricole Vallone
Ancora un fantastico duo, Donato Lazzari e Severino Garofano, sempre lui, per un negramaro lavorato in surmaturazione, ancor prima che l’Amarone facesse scuola a livello nazionale su questo segmento. A uve di potenza è stata data altra potenza, progetto omeopatico baciato da grande successo.
Cabernet Sauvignon 1988 Tasca d’Almerita
Il progetto parte prima della crisi del metanolo: il primo impianto infatti risale al 1984. All’epoca la Sicilia, non parliamo del resto del Sud, era conosciuta per le grandi masse di mosto e sfuso, oltre che naturalmente per i vini dolci schierati sugli scaffali dei supermercati a buon prezzo.
L’adozione del Cabernet fu una scelta strategica, riuscire a far parlare il territorio siciliano in una lingua comprensibile ovunque nel mondo. Le perfomance di questo vino nel corso degli anni sono state straordinarie, nelle degustazioni internazionali alla cieca è sempre emerso con punteggi alti. E ancora oggi rappresenta, insieme allo Chardonnay, uno dei pochi storici disponibili in Sicilia.
Gravello 1988, Librandi
Anche la Calabria dice la sua grazie al duo Severino Garofano–Nicodemo Librandi. Nasce un vino che è una sorta di mediazione rispetto tra lo schema di Tasca e i due pugliesi: blend di uve autoctone e internazionali. Cioé Cabernet Sauvignon e Gaglioppo. Il riscontro è molto positivo, per la prima volta si accende un faro sul vino calabrese rimasto sinora al buio.
Villa Gemma 1988 Masciarelli
L’enorme capacità di proiettarsi all’esterno di Gianni Masciarelli ha aperto la miniera Abruzzo ai visitatori italiani ed esteri. Con lui il Montepulciano acquista spazio e visibilità sulle tavole importanti. E’ tra i primi ad introdurre la barrique in uno skyline di cisterne e autobotti dirette in Toscana e al Nord.
Montevetrano 1992 di Silvia Imparato
Il rosso di Silvia Imparato fonda la Campania vitivinicola moderna, prima di allora conosciuta per i vini di Mastroberardino, D’Ambra e Moio. Da uve cabernet e merlot e poi di aglianico, l’impresa si ispira al modello bordolese che ha dominato gli anni ’90 in Italia. Il successo è davvero strepitoso, risponde al bisogno della critica internazionale di trovare qualcosa di nuovo rispetto ai soliti nuovi, il fatto che sia prodotto al Sud conferisce fascino ed esoticità: l’alta qualità consente al Montevetrano di raccogliere una impressionante messe di riconoscimenti che lo collocano stabilmente tra i primi vini italiani. Nessun vino del Sud può vantare questa perfomance.
Taurasi Macchia dei Goti 1994, Caggiano
Prima di Antonio Caggiano esisteva il Taurasi, ovviamente grazie alla lungimiranza di Mastroberardino, ma non Taurasi. Fu lui a convincere Luigi Moio a tornare da Bordeaux e, insieme, introdussero le prime barrique nell’areale: prima di allora nessuno fuori dalla Campania aveva considerato l’aglianico come un vitigno capace di esprimersi con eleganza e finezza. Una vera rivoluzione culturale anche la concezione della cantina, la prima ad essere costruita per ricevere visitatori, che portò i primi curiosi a visitare Taurasi, il centro storico e il castello allora diroccato e la proprietà Salae Domini.
Etna Bianco Pietramarina 1995, Benanti
Questo strepitoso cru quasi a quota mille da Carricante ha dimostrato come sia possibile ottenere vini bianchi nel Mezzogiorno con uve autoctone. Ma non solo, Benanti ha aperto le porte ad una Sicilia inedita, l’Etna. Il terroir che già produceva eccellenze ai tempi dei romani grazie al suolo e che sta togliendo gli schiaffi di faccia ad una regione che ha puntato eccessivamente non solo sulla omologazione ma anche sul low cost, riportando in qualche caso, indietro le lancette dell’orologio. Anche qui decisivo l’equilibrio del rapporto tra Benanti e l’enologo Salvo Foti.
Fiano di Avellino 1999 Clelia Romano
Il principe dei vitigni bianchi in una annata eccezionale, sicuramente la migliore per il Fiano da quando si ha memoria certificata in una interpretazione magistrale di Angelo Pizzi. Se Mastroberardino l’ha conservato e i Feudi lo hanno fatto conoscere fuori dalla Campania, è con Clelia Romano che si comprendono le potenzialità di questa uva su questo erritorio: ampiezza e complessità coniugate alla capacità di allungare il passo nel tempo.
Riassumendo: su nove vini, tre (Montevetrano, Gravello e Cabernet di Tasca) vedono prevalere gli uvaggi internazionali. Uno solo (il Fiano), non conosce legno. Tutti gli altri passano per il legno piccolo. La classifica degli enologi consulenti è pilotata da Severino Garofano con tre vini su nove, poi Riccardo Cotarella, Salvo Foti, Luigi Moio, Angelo Pizzi.
Scorrendo la cronologia, possiamo anche mettere dei punti: la Puglia e la Calabria non sono riuscite a creare nuova classicità, l’Abruzzo è continuamente in bilico tra eccellenze paradisiache e tsunami low cost omologato, la Sicilia e la Campania si erano affacciate in un modo ma ora si stanno affermando in un altro e rappresentano le novità più dinamiche grazie a due territori molto circoscritti, l’Irpinia e l’Etna.
Infine prevalgono i rossi, ma le promesse sono bianche.
40 Commenti
I commenti sono chiusi.
Beh, il Taurasi Radici non mi sembra che non abbia contribuito almeno quanto gli altri. E’ uno dei pochi vini che si trova da decenni nelle enoteche di gran parte dello Stivale e se qualcuno nomina il Taurasi, senza togliere niente a Caggiano, ma Mastroberardino esce sempre fuori per primo.
Sicuramente è un vino importante di un’azienda importante, Roberto. Ma questo post cerca di andare un po’ oltre la lettura attualmente diffusa ed è innegabile che le aziende storiche regionali hanno subìto più che imposto, la rivoluzione vitivinicola partita dopo il metanolo. Seguendo il filo logico del ragionamento, allora per la Puglia dovremmo parlare di de Castris, per la Calabria di Ippolito, etc. In realtà, questa la mia tesi, le aziende storiche, quelle che hanno poi avuto la capacità di aggiornarsi si intende, sono state ri-scoperte DOPO che il territorio è stato portato alla luce da altri.
Il senso di questo post è quello di contribuire a ricostruire una memoria storica: e la mia memoria mi dice che di fronte alle innovazioni degli anni ’90, complice anche la divisione familiare, in Campania la Mastroberardino ha subito questo processo, non lo ha determinato. Tanto che molti la davano addirittura in declino irreversibile, cosa a cui io, come ho scritto più volte, non ho mai creduto.
L’azienda irpina invece poii ha mostrato, più di altre storiche, di reagire, mettersi al passo e dunque gettare sul peso della valutazione il suo storico. Precisamente a partire dal 1998.
Senza il Taurasi di Caggiano, Taurasi non sarebbe esistita.
Una rilettura storica delle guide, anzi, della guida Gambero-Slow Food, porta inevitabilmente a questa conclusione.
Obiezione più fondante sarebbe, invece, capire chi ha contato di più, se Molettieri o Caggiano nel formare l’immagine di questo vino. Qui prendo posizione, ma consapevole davvero di esprimere una opinione a pelle.
Mi hai tolto …la tastiera da sotto le mani, Luciano! Però, io sono per Molettieri, perlomeno per quanto riguarda il prodotto. Per l’immagine, l’hai detto prima nel post, Caggiano è stato il primo in Irpinia a capire che la cantina andava realizzata anche in funzione scenografica…
Roberto concordo con te. Sicuramente, soprattutto nel continente americano, prima della nascita dell’etichetta Radici, Angelo e poi Antonio Mastroberardino sono stati tra i primi
” anche prima…”
io so per certo che con il vecchio ….Masrtoberardino in america c’era anche Elisario di Venticano Struzziero e il Taurasi Campo ceraso del nipote già si degustava acor prima di e di……..e ancora oggi non delude sto parlando dell’annata 2000 provare per credere però mi domando e chiedo come mai le varie guide lo abbiano dimenticato e gli abbiano preferito aziende e vini costruiti e non allevati con amore e umiltà !
D’accordo con te su radici di mastroberardino. Per il resto molettieri tutta la vita…..:-)
d’accordo con te Roberto, Radici è la storia, il big ben di di un certo tipo di vino in campania ( e forse in tutto il sud )
Questo è un post sul quale potrei scirvere pagine di commenti, tanto è ricco ed al tempo stesso semplice e lineare.
.
Però una cosa voglio dirla subito, o meglio, voglio ridirla subito: Severino Garofano meriterebbe di essere citato molto più spesso di quanto si è fatto nei suoi lunghissimi anni da Enologo, grande enologo.
Luciano, devo dartene atto, tu sei uno di quei pochi che ne ha ciclicamente parlato oppure hai ospitato pezzi che lo riguardassero. Dico questo perchè la storia dell’enologia del nostro amatissimo sud, attraverso Severino ha fatto passi da gigante. E li ha fatti sperimentando, provando, litigando, andando fortissimamente controcorrente, quando ancora tanta tecnologia, utilizzata oggi molto comunemente e quasi automaticamente, era lontana anni luce dai nostri territori.
E’ vero che Severino si è un po’ ritirato dalle scene, ma il corale plauso per le sue creature dovrebbe comunque arrivargli, assordante. E, scusatemi lo fogo nato da tanto affetto, trovo paradossale che debba essere io, marchigiano di nascita e pugliese d’adozione, a doverlo ricordare ai tanti corregionali che di cose enoiche si occupano.
.
Ma torniamo ai vini citati, ai tanti ricordi che suscitano nella mia mente di bevitore seriale. Vorrei citarne solo uno, il Cabernet Sauvignon di Tasca d’Almerita. Fu uno dei primi vini ad affascinarmi, per potenza e profumi. Molto diverso ai simili non sudisti, che si trovavano nelle osterie delle Marche (Ancora oggi, nel centro nord, la capacità di penetrazione dei nostri vini è ridottissima). Adesso forse, per molti, è un vino demodè, quasi da vergognarsi nell’affermare quanto ci sia piaciuto allora e quanto ci piaccia ancora oggi. Ripensandoci anche io è abbastanza tempo che non lo bevo, devo andare a controllare e forse qualche bottiglia vecchiotta salta fuori, magari magnum…..vi saprò dire.
.
Infine Luciano, permettimi di dire ancora un paio di cose:
1) Dici che il futuro è bianco, viste le promesse. Forse è così per parte della Campania e parte della Sicilia. io penso, al contrario, che dall’ Etna al Gran Sasso, le maggiori promesse e le grandi potenzialità siano in netta maggioranza rosse.
2) E’ un tema che ripropongo spesso nei miei commenti: la nuova classicità in Puglia. Nelle altre regioni non ti saprei dire compiutamente, ma per la Puglia penso di poter affermare che una nuova pattuglia di giovani brillanti produttori stia imprimendo fortemente una nuova classicità al primitivo, sia esso di Manduria o di Gioia del Colle. I nomi ? Chiaromonte, Fino, Morella e Polvanera. Chi segue i discorsi sul vino leggendo le guide o nel web sa benissimo quanto la Puglia debba loro una meritatissima enorme visibilità. E di questo dovremmo essere particolarmente felici.
.
Ciao
.
Sono sicuramente ottimi vini, Vigna, ma non hanno lo stesso impatto mediatico e commerciale di quelli di Severino.
Lui è stato l’uomo giusto al momento giusto
Ne riparliamo fra qualche anno.
Secondo me, quando storicizzeremo il loro apporto, capiremo quanto sarà stato fondamentale.
Sarà bello riparlarne e vedere chi avrà avuto ragione !
.
Ciao
Condivido ed aggiungo anche il Fiano Vignadora delle annate 88/89/90 di Mastroberardino ha sicuramente dato il suo contributo storico alla “internazionalizzazione” del vitigno.
ahia, non so se Luciano apprezzerà questa sottolineautra sulla “internazionalizzazione” :-)) piuttosto, Massimo, sarebbe interessante riuscire a ricordare cosa bevevamo allora, nelle nostre prime degustazioni ;-)
Seguendo il tuo discorso, Luciano, mi ritrovo d’accordo, avevo male interpretato il post.
ottimo articolo e ottima scelta anche se mi mancano gli “antichi” rosati che hanno solcato i mari … fra tutti il Five Roses di Leone De Castris
Non voglio essere “partigiano” ma un Aglianico del Vulture ??!!!
non credo non abbia i requisiti per essere conosciuto in Italia intera!
E’ un post molto bello, con tantissimi spunti di riflessione. Fin dai banchi di scuola, la storia è costantemente stata la mia materia preferita (sti cavoli, me lo dico da solo…:-) e la sua applicazione alle cose vinicole l’ho sempre trovata di un fascino irresistibile, specialmente quando, come sottolinei, mira a creare una memoria condivisa.
Personalmente ritengo più che mai significativa e necessaria una ricostruzione documentata di quello che è stato il vino meridionale tra la metà degli anni ’70 e la fine degli anni ’90, con i suoi snodi e le sue traiettorie tutt’altro che lineari: paradossalmente è molto più facile intendersi su quello che è accaduto precedentemente.
La generazione di appassionati a cui appartengo ha iniziato ad interessarsi voracemente di vino in una fase per così dire già “post-moderna”, quella sorta di no man’s land che porta dal Patrimo rosso dell’anno al racconto contemporaneo, dove trovano spazio tanti temi a lungo trascurati. Per opportunismo, per convinzione, per moda, non importa, ma è un dato di fatto che questo trapasso sia molto visibile oggi.
Sui vini proposti non ho ovviamente ricordi diretti dell’impatto che hanno avuto nel periodo immediatamente successivo alla loro uscita, ma le testimonianze raccolte random in questi anni mi trovano sostanzialmente d’accordo. Il Macchia dei Goti ’94 (e il Piano di Montevergine sempre ’94) è sicuramente una pietra miliare per quello che è accaduto e sta accadendo nella zona, non tanto come “primo Taurasi in barrique” quanto per il suo aver mostrato concretamente che le strade da percorrere potevano essere molteplici, a cominciare dalla sottolineatura dei caratteri di cru e sottozone. Stesso discorso per Montevetrano ’92 (ricordi?) o Pietramarina ’95, tra l’altro bevuto da pochissimo e trovato in forma smagliante. A prescindere dall’annata, splendida, anche il Fiano di Clelia è un mattone da fissare e condividere, avrei aggiunto solo il Greco di Tufo di Gabriella Ferrara (dicono che il ’96 sia buonissimo ma non l’ho mai assaggiato) o il ’92 di Vadiaperti. E poi l’Aglianico del Vulture Don Anselmo Ris. ’85, oggi percepito come un grande classico ma per l’epoca rivoluzionario quanto e più della Firma anni ’90.
Quoto tutto
Tre sbucciature: Vadiaperti ha avuto un effetto più come azienda che come vino singolo (fu clamorosa la scelta di Antonio di avviarsi per fatti suoi), però circoscritto territorialmente
Ho riflettuto molto di Don Anselmo, credo che per Paternoster (e D’Angelo) valga più o meno il ragionamento che ho fatto per Mastro. Ma il punto vero qui, con mio sommo rammarico, è che il Vulture non è per nulla impattante nella percezione del senso comune, un caso abnorme di sottovalutazione collettiva. Lo rivelano, pensa te, persino i dati di lettura delle schede su questo sito.
Infine Gabriella: non l’ho aggiunta perché poi erano troppi campani, ma potrebbe benissimo essere alternata a Clelia
Su Vadiaperti effettivamente è come dici tu: più impattante l’uomo e l’azienda che la singola etichetta in quel periodo.
Su Don Anselmo sono meno d’accordo, un po’ perché Paternoster non ha dovuto affrontare una rottura traumatica come quella avvenuta in seno alla famiglia Mastroberardino e un po’ perché la fase di rimessa in discussione delle gerarchie territoriali mi sembra sia arrivata successivamente nel Vulture, più vicina agli anni 2000 che ai ’90. Le stesse carte dei vini di ristoratori illuminati dedicano ancora oggi uno spazio importante ai Don Anselmo di fine anni ’80-inizio anni ’90, là dove sui Taurasi di Mastro sembra esserci quasi un buco dal ’92 al ’97. E non che non fossero comunque buoni… Così, giusto per ragionare un altro po’.
Aspetto con interesse un post con figli e nipoti, in linea diretta o trasversale. Credo ci sia necessità di tirare le fila, segnare dei percorsi precisi e riconoscibili, tracciare delle storie, all’interno di una produzione enorme e spesso dispersiva. Non basta più esser vino del Sud, (nessuno parla di vini del Nord) ma è necessario costruire, valorizzare e seguire nel tempo precise aree geografiche, creare una sorta di piramide sulla base dell’impatto storico, qualitativo, territoriale e peculiare delle diverse zone. La forza del nome di un territorio a cementare i diversi produttori (ognuno con la propria filosofia) e non il contrario.
E’ ‘na parola!!! E’ proprio questo il problema… ;-))
Nessuno parla indistintamente di vini del Nord o del Centro perché siamo in presenza di più aree vitivinicole commercialmente mature mentre si parla di vino del Sud in quanto per molti decenni, a parte qualche rara eccezione, dalla Sicilia al Vulture, era una sola massa indistinta di mosto, sfuso ad alto grado alcolico e tutto quanto serviva per l’enologia dell’epoca del mercato interno ed estero come attestano le (poche) fatture conservate dai grandi vinificatori.
Anche per il mercato delle mille taverne di Napoli esisteva una massa indistinta che andava indifferentemente dal Salento all’Abruzzo
Ovvio che man mano che le diverse zone emergeranno, come in effetti sta accadendo, non si potrà con una sola indicazione generica coprire tutta la produzione di un’area geografica.
Ma questo è un processo in corso, nel quale manca il filo della memoria perché il Sud ha sempre e solo prodotto materia prima e semilavorato poi commercializzati da altri
Mica facile sistematizzare e storicizzare, pur a distanza di tempo: impegno encomiabile, Luciano, e molto utile per chi -come me- ama ricostruire sempre la storia delle cose che lo appassionano…
Luciano, non riesco a non farti una battuta scherzosa, é più forte di me: come mai ti sei dimenticato in questi magnifici nove, sui quali concordo sostanzialmente con te, il mitico Patrimo? Potresti fare cifra tonda, dieci, inserendolo à la volée… :)
Però mi fa piacere sapere che concordiamo 9 su 10, è una buona base di partenza:-)
mi entusiasma la sfera di emozioni che genera tale argomento.
l’ultima nota di luciano è precisa in passato le uve si producevano per gli altri oggi si rischia di piu di proprio per poter far conoscere quello che la terra e la natura del sud portano nel bicchiere, storia tradizione e sacrifici.
per il discorso bianchi sono d’accordo I BIANCHI SONO IL FUTURO, in quanto da poco tempo si aspetta ad aprire una bottiglia di fiano, greco o falanghina di 4-5-10 anni con le verticali e (le attenzioni alle zonazioni) con le diverse aspettative di un prodotto che vive e si evolve……..dateci tempo……..
inoltre IMPORTANTISSIMO IL SUD NON E’ ARRIVATO MA SI MOBILITA’ PER CRESCERE E LO DIMOSTRA LA PRESENZA ALLA MANIFESTAZIONE “DENTRO IL VINO” DOVE CI SARA’ APPROFONDIMENTO E RICERCA A DISPOSIZIONE DI TECNICI , DI PRODUTTORI E DI TUTTO IL MONDO DEL VINO
Mi hai fatto tornare ragazzo alle prime armi in vigna e cantina con accanto quel monumento vivente che è Severino, nel mio biberon sono stato allattato a Patriglione, Graticciaia e Gravello ma devo dirti che sia pure con minore impatto mediatico c’è un altro misconosciuto figlio di cotanto padre che non ha avuto mediaticamente lo stesso successo ma che li vale ed ha avuto un grande successo commerciale ed è il Cappello di Prete di Sandro Candido. Oggi un vino un pò più “normale” ma all’epoca un vino dalla grande tiratura che metteva daccordo i consumatori di tre continenti diversi che di vini pugliesi non avevano mai sentito parlare.
Vino che bevvi la prima volta che venni in Puglia a trovare Caterina e Giulio cantatore de “L’angolo divino” a Ruvo di Puglia. Mi ricordo che terminai il pasto bevendo Passo delle Viscarde, mentre i pochi altri vini bevuti non li ricordo….in quella stessa sera conobbi Tonia….
.
Ciao
cercherò nella mia cantina, non sono sicuro ma se lo ritrovo ti donerò una bottiglia di cappello di prete ’90
Per quanto riguarda la Sicilia, forse meriterebbe un cenno il Duca Enrico, che credo sia stato l’antesignano di quella che successivamente sarebbe stata la vera e propria ‘esplosione’ del Nero d’Avola.
Se non ricordo male Luciano uno dei vini che ti feci assaggiare era il Duca D’aragona 90(strepitoso),
Azienda condotta oramai da parecchi anni con grande signorilità,da Giacomo ed Alessandro Candido,signorilità che vorrei sottolineare in almeno 2 occasioni che mi sia capitato di incontrare i due fratelli ,una durante una visita in azienda con dei miei colleghi dell’Otre’Pò Pavese,con un’accoglienza degna di questo nome in sede a Gugnano che i miei amici a distanza di diversi anni ricordano ancora con piacere,ed un’altra in una serata dove hanno presentato i loro vini nel nostro locale.
Per correttezza devo dire che il Passo delle Viscarde prodotto dalle sorelle Vallone a Lecce,azienda condotta da almeno 30 anni con grande competenza e serietà da Donato Lazzari,anch’esso grande signore del Vino Pugliese,ed ultimo ma solo in ordine cronologico Pier Nicola Leone de Castris a Salice Salentino.
bel pezzo Luciano, come prevedevo ;-)
però una cosa, non capisco il passaggio “l’Abruzzo è continuamente in bilico tra eccellenze paradisiache e tsunami low cost omologato”, personalmente trovo che una delle caratteristiche più belle e contemporanee del MdA sia appunto la possibilità di fare vini deliziosi ad un prezzo piccolissimi, quasi mai (a parte i grossissimi gruppi industriali) omologati e banali… Spesso sono proprio talune eccellenze ad essere ancora un poco omologate e old fashion, giocate troppo semplicemente tra concentrazione e legno…
ciao A
Solo per dire che il post è moooolto interessante e altrettanto arricchente lo scambio di opinioni che ne è nato. Un piacere insomma.
I lettori ringraziano
Concordo con Sara! Ottimo post e ottimi commenti che arricchiscono ulteriormente i contenuti della discussione.
Si potrebbe pensare a posto “monografici” sui principali vitigni del sud.
Magari qualche cenno al Taurasi vigna cinque querce di Molettieri si poteva pure fare visto che da anni produce un Taurasi di grandissimo livello…
E i vini lucani??? Nessun accenno a qualche “misera” cantina che produce un grandissimo aglianico del vulture??? su coraggio qualche altro sforzo si può pure fare….
Le scelte di Luciano sono piuttosto condivisibili, a questo elenco mi sentirei solo di aggiungere – se reputassimo la Sardegna come sud e basta – l’immenso Turriga ’90 (alla terza vendemmia) che ha segnato fortemente la storia dell’isola ma ha pure contribuito a guardare “l’altra Italia del vino” con un po’ più di riguardo, fosse solo perchè ci aveva scommesso un certo Tachis.
Cantina del Notaio La Firma-Palari, Faro Palari-Terre di Lavoro Fatica Contadina. non dimentichiamoli.
Ciao Lido
illuminante per una che è arrivata in questo mondo da soli 9 anni, emozionante e direi che segna la strada da percorrere per le aziende del sud in questo momento storico . lettura da archiviare tra il materiale di studio.)
Quasi coevo del Montevetrano, il Terra di Lavoro di Galardi .
Riccardo Morelli
Caro Luciano, innanzitutto complimenti per il blog, che trovo interessantissimo ed assai utile per diffondere la cultura del vino. Io sono del nord ma apprezzo profondamente il Sud vitivinicolo e non solo. Ai corsi ed alla degustazioni dell’ AIS quando posso presento e approfondisco i Vostri vini. Certo, dovendo scegliere nove vini, non ne possiamo citare cento, ma a proposito di vini che hanno certo contribuito a diffondere ” il Sud fuori dal Sud” io mi permetto di citare il Fiorduva Di Marisa Cuomo. Vitigni, terroir e ambiente pedoclimatico unici, vitivinicoltura ( e..vitivinicultura) eroica ed estrema a picco sul mare. E un livello qualitativo soprattutto ( che e’ quello che alla fine interessa piu’ a noi !! ) di livello certamente molto ma molto alto. Ho recentemente tenuto delle degustazioni in Olanda con addetti ai lavori olandesi e tedeschi e la Campania ha letteralmente incantato tutti con il Fiorduva e con il Fiano ” Vigna della Congregazione 2006″ di Villa Diamante che un amico degustatore tedesco ha definito ” il piu’ grande vino della Mosella fuori dalla Mosella”. E visto come vanno di moda i bianchi tedeschi… Grazie per lo spazio concessomi e spero di continuare a confrontarmi con Voi