I giorni della merla? No, i giorni del maiale
di Carmen Autuori
In Campania c’è un’ espressione molto colorita: “Sant’ Antuono s’annamuraie ‘ro puorco”, a significare che l’amore è cieco. Ma se volessimo dare ad essa una lettura più ampia ci accorgeremmo dell’esatta misura dei pregiudizi nei confronti del maiale. Sacro alla dea Cerere, celebrato da Virgilio nell’episodio della scrofa che indica ad Enea un porto sicuro per sbarcare, con il Medioevo diventa una bestia immonda simbolo di uno dei peccati capitali, la lussuria. Eppure del maiale ne parlano Columella, Catone e Varrone, quest’ultimo il primo autore a descrivere l’impasto di un salume, precisamente la salsiccia prodotta in Lucania, la lucanica o luganeca.
Fu Sant’ Antonio Abate a ridare la dignità perduta a questo animale da cortile, sia perché il suo grasso, usato a mo’ di pomata, aveva poteri lenitivi nel bruciore procurato dal fuoco di Sant’Antonio, sia perché la carne poteva sfamare i monaci e i malati che affollavano gli ospedali oltre che le schiere di contadini che, probabilmente, solo in occasione della sua uccisione potevano cibarsi a sufficienza di carne. Così il periodo a cavallo della festa del santo eremita e taumaturgo, fondatore dell’ ordine Antoniano, patrono del fuoco, dell’herpes Zoster, volgarmente detto fuoco di Sant’Antonio che viene sempre raffigurato con un maialino ai piedi, dà inizio a partire dal 17 gennaio, ai giorni del maiale.
Quello dell’uccisione è un rito antico, ancestrale, dai connotati fortemente antropologici che appartiene alla cultura contadina da Nord a Sud, ma che resiste soprattutto in alcune aree rurali del meridione; infatti ancora oggi l’ uccisione del maiale, soprattutto nei paesi dell’entroterra campano (Alta Irpinia, beneventano, Cilento e Vallo di Diano), ma anche in Basilicata ed in Calabria è un vera e propria festa a cui partecipano la famiglia, gli amici, anche quelli che abitano in luoghi distanti e che tornano per l’occasione oltre a tutto il vicinato.
La giornata comincia ben presto, quasi all’alba, con l’arrivo dello “scannapuorco”, un vero e proprio professionista a cui spetta l’ingrato compito dell’uccisione vera e propria, aiutato dagli uomini che costituiscono la forza lavoro di tutto il processo di lavorazione che comincia con la divisione dei vari tagli di carne e termine con la preparazione dei salumi, il lavoro è lungo, ci vorranno dai due ai tre giorni.
Alle donne invece spetta il compito di raccogliere il sangue dell’animale per fare il sanguinaccio (ricordiamo che dal 1992 ne è vietata la vendita), quello di lavare le budella che serviranno a fare gli insaccati e quella di cucinare le interiora: il fegato con la foglia di alloro avvolto nella rete, il soffritto, detto anche zuppa forte (un misto d’interiora annegato in una salsa piccantissima) e l’immancabile “sfrionzola”, in quanto la faticosa giornata si concluderà a tavola, prima di riprendere il lavoro nei giorni successivi.
Protagonista sarà, come dicevamo, la sfrionzola, un misto di carne, detta di “scannaturo”, ricavato dalle parti vicino alla testa (può andare bene anche la pancetta) che essendo carni fredde ben si prestano ad essere consumate subito, senza attendere i canonici giorni di frollatura. A questo spezzatino si usa aggiungere le patate ed alcuni peperoni rossi conservati sott’aceto, detti pupacchielle o papaccelle , il tutto rigorosamente fritto in olio evo o, meglio ancora, nella sugna. Come spesso accade con i piatti della tradizione il nome del piatto varia a secondo della zona di provenienza.
Mentre nel salernitano è la “sfrionzola” o “sfriunzola” in quasi tutto il Cilento viene chiamata frittulao o, a Morigerati e in piccoli paesini a confine con la Basilicata, frittula. Ancora una volta la sapienza contadina è riuscita, così, a rendere speciale una carne che altrimenti non avrebbe trovato utilizzo essendo poco adatta ad essere conservata. Quella stessa cultura che ci consegna valori forti: la convivialità, la condivisione sia del lavoro che del piacere legato al cibo ed anche l’augurio di abbondanza perché per le società rurali l’uccisione del maiale rimane un vero e proprio rito sacrificale e propiziatorio come emerge anche dall’uso dello scambio di carni: un pezzo di fegato, qualche costatella, un poco di lardo rigorosamente decorati da foglie di alloro viaggiano di casa in casa ad augurare abbondanza per il nuovo anno che è appena iniziato.
La sfrionzola
Ingredienti per 4 persone
500 g di carne di maiale ricca di grasso
4 patate (meglio se di montagna) piuttosto grosse
4 papaccelle sott’aceto
Olio evo per friggere
Sale
Procedimento
Tagliare a pezzi la carne in cubetti piccoli e tenere da parte. Tagliare grossolanamente le patate mettendole in acqua fredda affinché non anneriscano, togliere i semi dalla pupacchiella evitando di sciacquarla dall’ aceto. In una capace padella dai bordi alti, versare un giro abbondante di olio evo. Una volta riscaldatosi farvi friggere i peperoni. Quando si sono ben rosolati, scolarli e tenere in caldo. Procedere allo stesso modo con la carne ed infine con le patate sempre separatamente. Rimettere tutti gli ingredienti nella padella. Far insaporire ben bene e servire bollenti con un’ abbondante spolverata di pepe.
Un commento
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Ma non dovevamo andare a trovare una persona esperta di queste cose….