Stella Michelin a Hémicycle di Flavio Lucarini e Aurora Storari a Parigi
Hémicycle a Parigi di Flavio Lucarini e Aurora Storari
5 Rue de Bourgogne
Tel. 33 1 40 62 98 04
Sempre aperto, chiuso domenica e lunedì
Hèmicycle a Parigi, il ristorante di Flavio Lucarini e Aurora Storari conquista la stella Michelin. Ci abbiamo mangiato all’inizio dell’anno è siamo stati facili profeti nel predire questo risultato, per le premesse e soprattutto per la bellezza della cucina, la professionalità della sala, il tocco italiano introdotto senza presunzione. Ecco la recensione del 4 gennaio scoro
Stella Michelin al ristorante Hémicycle
Ovviamente non sappiamo le decisioni che prenderà la Michelin, ma è certo che Hémicycle di Flavio Lucarini e Aurora Storari è l’ennesimo ristorante italiano sotto lo scanner della Rossa. Italiani che si sono fatti valere nella bistronomia sino a diventare personaggi iconici ce ne sono davvero tanti a Parigi, da Matteo Farnesi a Giovanni Passerini o Simone Tondo, giusto per citare i più famosi che hanno fatto epoca e stanno sul pezzo. Ma il progetto di Hémicycle appare da subito più ambizioso, almeno da come è stato presentato l’estate scorsa da Stéphane Manigold, patron del gruppo Eclore. Lo chef manager che si è fatto da se’ oggi è un riferimento nella ristorazione parigina: dopo le stelle Michelin Granite and Substance, Braise, Contraste, Liquide, il Bistrot Flaubert e il due stelle Maison Rostang ha puntato sui romani Flavio Lucarini, da otto anni in Francia ( chef al Gabriel, al Passerini e al Bistrot Flaubert) e Aurora Storari (Mirazur, a capo del reparto pasticceria al Clarence). Un locale di tre piani alle spalle dell’imponente Assemblea Nazionale.
Flavio e Aurora sono i personaggi ideali per comunicare uno svecchiamento formale e sostanziale della cucina francese a Parigi non relegato alla sola bistronomia, sia dal punto di vista generazionale che per il “touche italienne” che ormai fa figo anche nell’alta ristorazione parigina. Basti pensare alle stelle Michelin di Simone Zanoni al George, Oliver Piras e Alessandra del Favero al Carpaccio e Martino Ruggeri.
La touche italianne si avverte da subito nella sala, dominata da Michele Crippa, ex Pavillon Ledoyenne e da Giacomo Gironi, sommelier di lungo corso dai tempi del Giuda Ballerino e del Pagliaccio, impegnato nella formazione e responsabile sommellerie del gruppo. La ritualità diventa colloquio, la personalizzazione del rapporto pur mantenendo il ruolo, l’elasticità mentale di adattarsi alla situazione, soprattutto, sono quel quid in più che fa la differenza e che rientra nella espressione per nulla astratta “accoglienza italiana”.
La differenza è anche nell’ambiente, luminoso, semplice, elegante, in stile anni ’70, con la cucina che entra nella sala, bagni curati nei dettagli, compresi i fiori freschi. Niente di pomposo. Insomma, appena si entra ci si rilassa e ci si sente a casa tranquilli.
La carta dei vini è un altro plus, anche un po’ di Italia in più non guasterebbe, soprattutto nei bianchi e un po’ di Etna, ma complessivamente il librone che viene portato a tavola soddisfa tutte le esigenze di chi ama i francesi, ha alcune profondità interessanti ma soprattutto il prezzo dei vini, anche i più costosi, è decisamente abbordabile.
Ma a colpirci più di tutto è stata la cucina di Flavio Lucarini e Aurora Storari. Basi classiche, grande tecnica e tanto futuro. Anzitutto viene ribaltato il concetto, molto francese, che nei ristoranti fine dining più si sale più il prodotto deve essere di lusso e solo variamente declinato. Nella sensibilità di questa straordinaria coppia, che Iddio ce la conservi a lungo, c’è tutto il mondo degli odori e dei sapori naturali che entra e attraversa le preparazioni. Saltano le gerarchie perchè mare, carne e vegetali pari sono nelle portate, in rigorosa sequenza consigliata anche da chi ha uno sguardo alla salute; le salse, orgoglio di Francia, non sono grasse ma di carattere perché si lavora moltissimo sulla estrazione del sapore dalla materia, una materia che spesso è poverissima (ecco un altro tocco italiano) ma ricca di erbe, essenze, esaltatori di sapore, tutto ben dosato. L’equilibrio del piatto, vera ossessione della classicità francese importata da Marchesi in Italia, è sonoramente ignorato ma l’acidità e l’amaro non sono un fine da esibire e da estremizzare, bensì temi da dosare, confinate a fare comunque da spalla senza diventare protagoniste come ormai avviene in gran parte della cucina del Nord Europa e in qualche epigono italiano.
Basti pensare che detesto rapa rossa e cappesante ma entrambe le ho mangiate con grande gusto nella interpretazione di Flavio. La musicalità del menu salato consente di arrivare freschi al dolce se riuscite a resistere all’ottimo pane fatto in casa e alla crema di burro, anche questa realizzata in proprio.
Non manca il momento comfort food, come è giusto che sia: per me è rappresentato dalla quaglia ripiena, talmente deliziosa che mi ha ricordato il mitico pollo del Nomad a NY.
La rivoluzione nel salato è ancora più esaltata nel dessert di Aurora (nome a me caro perchè era quello di mia madre): qui la prospettiva è ancora pià radicalmente rovesciata rispetto alla classicità, non solo per il tema del dolce non dolce, ma proprio per le componenti materiali che entrano in questa sezione, giocate in maniera incredibilmente naturale ed efficace.
Alla fine del pranzo ci si alza bene, non appesantiti.
In conclusione, questo è sicuramente uno dei posti da cui osservare la cucina del futuro. Un’alternativa alla classicità non rinnegata e rispettata perchè comuque basata sulla conoscenza profonda della stessa. Ci sono percorsi degustazione oppure si può scegliere alla carta. Il costo si aggira sui 100 euro, esclusi i vini.
Consigliatissimo. Per quanto riguarda il mio parere da comunicatore prima ancora che da gastronomo, vale due stelle secco.
Scripta manent.