Garantito IGP | Feudi di San Gregorio e il progetto Feudi Studi sulla territorialità del vino dell’Irpinia
di Andrea Petrini
Erano gli anni ’90, ero adolescente o giù di lì, e mi ricordo bene che per fare bella figura con gli amici, pur non capendo nulla, come ora, di vino, compravo spesso al supermercato o il Greco di Tufo o, meglio ancora, la Falanghina di Feudi di San Gregorio. Andavo sul sicuro, piacevano a tutti, erano nettari molto “piacioni”, dopo oltre venti anni ancora non posso dimenticare i loro profumi di frutta tropicale e la morbidezza all’assaggio. Per molto tempo le cose sono andate avanti così, Feudi di San Gregorio, grazie soprattutto alla GDO, oggi come ieri, era una azienda forte, premiata, “pop” come i suoi vini distribuiti in ogni dove, eppure qualcosa non andava, il “suono” che Feudi emanava non era pulito, lineare, perché mancava, forse, la cosa più importante ovvero il legame profondo dei suoi vini col territorio. Questa distorsione, a mio giudizio, viene finalmente assorbita quando entrano in azienda due persone: la prima è Antonio Capaldo, Presidente di Feudi di San Gregorio dal 2009, che con fatica ha fornito gli input per reimpostare l’anima agricola di Feudi cercando di sfruttare il carico di sapienza, lentezza e di emozioni che fornisce un territorio unico, ricco di biodiversità, come la terra irpina.
Tutto ciò, ovvero la volontà di produrre vini finalmente profondi e spontanei non potrebbe determinarsi senza la presenza di un’altra figura determinante per l’azienda ovvero Pierpaolo Sirch, agronomo appassionato già collaboratore di Feudi, che Capaldo ha voluto fortemente prima come Amministratore Delegato e poi anche come Direttore Tecnico.
Con Sirch, da me ribattezzato “uomo-pianta” per le sue immense conoscenze agronomiche, ho avuto il privilegio di girare tra le vigne di proprietà di Feudi (l’azienda possiede anche vigneti in affitto) che senza troppi giri di parole mi contestualizza in questo modo: “l’Irpinia, di fatto, è un’immensa banca dati genetica, uno scrigno di profumi e sapori diversi scomparsi dalla nostra memoria gustativa che devono essere salvati. La sfida di Feudi di San Gregorio – continua – è quella di cercare e proteggere la diversità per se stessa. La non-omologazione è un valore portante per il vino del futuro, e non solo per Feudi”.
Poi, arriva il concetto che mi apre il cuore e mi rende più che speranzoso: “Quello che mi è stato chiesto quando sono arrivato è di riportare l’azienda con i piedi nel vigneto. Dobbiamo pensare che negli anni passati si piantava un po’ ovunque, dove capitava, senza una piena conoscenza delle potenzialità dei terreni. Per raggiungere questo obiettivo ci vogliono le persone, non i numeri. E’ necessario riportare l’uomo nei campi e riconquistare la sensibilità per capire quello che sta succedendo nella vigna”.
Il nucleo originario dei vigneti di Feudi di San Gregorio si trova nella zona di Sorbo Serpico, dove c’è anche la cantina. Nel tempo, sono stati acquisiti vigneti nella zona di Tufo, a Taurasi e a Santa Paolina. Tutti sono situati su pendii compresi fra i 350 e i 700 metri per un totale di circa 250 ettari. Di questa totalità circa 60 ettari sono piccole parcelle di vigne storiche (in totale Feudi gestisce circa 895 parcelle e circa 700 ettari di vigneto totale), gestite con lunghi contratti di affitto che hanno non solo l’intento di raccogliere grappoli preziosi ma anche di salvare letteralmente il patrimonio vinicolo anche grazie alla collaborazione con varie università italiane e internazionali per la ricerca, lo studio genetico e la riproduzione delle vigne vecchie (dai 70/80 fino a oltre 200 anni) che ancora popolano l’Irpinia.
Per sfruttare appieno queste potenzialità nasce nel 2011 il progetto FeudiStudi. “L’idea – mi conferma Sirch – è interpretare le medesime varietà su suoli diversi, per esprimere l’essenza del vitigno in rapporto al territorio, riducendo al minimo l’intervento dell’uomo”.
Ad oggi i FeudiStudi hanno esplorato tre varietà (aglianico, fiano di Avellino e greco di Tufo) rappresentative di dodici vigneti e cinque vendemmie, dal 2011 al 2015.
Assieme a Sirch abbiamo degustato l’annata 2015 dove, come sempre, i vini sono prodotti in tiratura limitata di 2.000 esemplari in una speciale bottiglia del XVII secolo rivisitata.
Fiano di Avellino “Campo Aperto” 2015: da una vigna di tre ettari piantata nel 2000 in zona Sant’Angelo a Scala nasce questo fiano in purezza vibrante dotato di acidità agrumata e soffi aromatici di fiori di acacia e pietra bianca. Al sorso è tesissimo, una vera e propria sciabolata sapida che inonda il palato determinando un finale lunghissimo.
Fiano di Avellino “Fraedane” 2015: nel territorio di Montefredane, dove Feudi nel 1995 ha piantato una vigna di 0,8 ettari, il Fiano viene così ovvero dotato di inconfondibili toni aromatici fumè e, in generali, di frutta matura mentre al sorso è generoso, leggermente morbido e caldo nel finale.
Fiano di Avellino “Arianello” 2015: A Lapio, zona dove Feudi ha una vigna del 2003 di circa un ettaro, il Fiano risulta inconfondibile, ha maggiore struttura e “grassezza” rispetto ai precedenti da cui si distingue ulteriormente per una componente di erbe aromatiche e gesso che lo rende davvero complesso e suadente. Al sorso la materia del vino è ben bilanciata da tanta freschezza e sapidità che rendono la beva armonica e succosa.
Greco di Tufo “Bussi” 2015: da 2 ettari di vigneto di circa 15 anni piantato su argille compresse nasce questo vino dalla grande spinta minerale e dotato di un sorso verticale, citrino arricchito da tinte sapide che ne allungano la persistenza in maniera decisiva.
Greco di Tufo “Laura” 2015: il vigneto, circa un ettaro piantato su terreno argilloso-calcareo, è molto più vecchio del precedente e il vino che ne deriva ha un registro olfattivo agrumato, erbaceo, e alla beva garantisce tanta freschezza, e non sapidità come il Bussi, che ben lavora ai fianchi per gestire un corpo complesso e di spessore.
Greco di Tufo “Arielle” 2015: il vino, prodotto da vigne di poco più di 20 anni piantate a 600 metri di altezza su terreno argilloso, è il più austero dei tre, ha evidenze salmastre, sapide, sa di erbe officinali e mela golden. All’assaggio è coerente, dimostra carattere, sostanza e una persistenza “da vendere” subissata da percezioni sulfuree.
Taurasi “Candriano” 2012: proveniente da vigneti del 1950 posti a circa 650 metri di altitudine, dove l’escursione termica tra notte e giorno registra sbalzi di anche 25°, il Candriano è un aglianico in purezza molto estroverso e di grande solarità dove ritrovo all’olfatto frutta rossa croccante associata a sbuffi di spezie orientali e guizzi balsamici. Sorso ancora esuberante, giovane nella trama tannica, e finale robusto e sincero.
Taurasi “Rosamilia” 2012: proveniente da un vigneto del 1960, questo Aglianico si caratterizza per una maggiore austerità rispetto al precedente, apprezzo moltissimo i suoi profumi di tabacco, humus, rabarbaro, spezie scure e frutta nera. La bocca è imponente, ben sciolta nella setosa intelaiatura tannica. Grintoso nel finale, con persistenza decisa, senza strappi, che non molla per lunghi minuti.