Gabriele Gorelli e due annate di Bordeaux: 2020 e 2018 presentate a Verona. La degustazione della 2018
di Raffaele Mosca
Bordeaux 2018 e 2020 con il master of wine Gabriele Gorelli: le due annate a confronto
Finalmente Verona torna a tingersi di rosso. E questa volta non è il colore che porta con sé le massime restrizioni, ma quello fitto, impenetrabile, inchiostrato del Bordeaux presentato “en primeur” a stampa e operatori. Come si suol dire, se Maometto non va alla montagna la montagna va da Maometto e, se i professionisti italiani non possono andare in terra bordolese, perché solo adesso cominciamo a venir fuori dalla pandemia, è Bordeaux a venire in Italia con la selezione di uno dei più grandi negociant attivi sulla sua piazza.
Per ripartire con il piede giusto il team di Les Grand Chais de France ha scelto come cornice la splendida Villa Ca’ Vendri alle porte della Valpantena e ha chiamato a condurre la kermesse il personaggio del momento: Gabriele Gorelli, primo Master of Wine italiano. A Gabriele ho chiesto di spiegare le differenze tra due annate – la 2018 appena rilasciata e la 2020 in “echantillon” – che, nel calice, sembrano avere come fil rouge il calore, la potenza, una densità del frutto quasi “nuovomondista”. Ecco cosa mi ha detto:
Gabriele, come sono state le annate 2018 e 2020?
Diametralmente opposte. La 2018 parte molto fresca e piovosa ed è figlia della 2017, l’annata della grandi gelate, quindi le rese sono più contenute già in partenza. A tutto ciò si aggiungono le grandinate, soprattutto a Pessac e nella parte alta della riva destra (quella di Bourg, Blaye ecc.). In seguito, però, succede una cosa strana: non arrivano le solite piogge estive, c’è grande siccità fino alla fine della fase di maturazione. Quindi i vini sono molti densi, concentrati, possenti. La ‘20, invece, parte con temperature sopra la media stagionale e con poca acqua già in primavera. Il clima è siccitoso fino a fine agosto, ma poi arrivano le piogge e si verifica una situazione quasi dualistica: il Merlot viene vendemmiato intorno al 18-20 agosto ed è perfetto; il Cabernet, invece, risente del cattivo tempo e c’è questa polarizzazione tra chi è riuscito comunque a portarlo a casa sano e chi, invece, non è riuscito a raggiungere un livello di maturazione ottimale.
Quindi, in sostanza, due annate buone, ma non eccellenti?
La 2018 è sicuramente un’annata buona, ma fuori da quello che è il Bordeaux classico. Ha dato vini molto densi e alcolici.
La 2020, invece, è più altalenante, giusto?
Si, la 2020 è altalenante, l’abbiamo qui ed emerge chiaramente l’andamento quasi sinusoidale. Sicuramente, però, sarà un millesimo su cui investire, perché la 2021 è stata compromessa dalle gelate che hanno colpito Bordeaux negli ultimi mesi. Di Bordeaux ‘21 sappiamo già che ce ne sarà pochissimo.
Potremmo definire la 2020 un’annata da riva destra (Saint Emilion, Pomerol) ?
Si, assolutamente. Il Merlot, che è più precoce, ha dato risultati sicuramente più consistenti.
A livello di prezzi? Questi millesimi saranno foraggiati dalla scarsità o il mercato seguirà la qualità del millesimo?
Mah, io credo che ci sia in questo momento un forte riequilibrio tra prezzo e richiesta. La scarsità, con l’avvento dei mercati asiatici, non è più il focus degli cheateau e dei negociant. Non c’è più volontà di spingere verso l’alto il prezzo. Al contrario, ora si bevono vini di qualità diffusamente migliore senza svenarsi.
Un vino “best buy” della 2018 che consiglierebbe di comprare?
Di ‘18 direi assolutamente Chateau La Patache, nonostante i 50 euro al consumo. E’ un vino che non incarna il millesimo e non incarna Pomerol, ma rappresenta una visione di Bordeaux moderna e lungimirante.
La degustazione di Bordeaux 2018
Protagonisti della masterclass sul 2018 una sfilza di vini bordolesi “ di piacere e non di mercato” – ovvero con un prezzo medio tra i 30 e i 50 euro – che evidenziano le differenze stilistiche all’interno di un panorama produttivo nel quale il fattore umano è assolutamente determinante. Gabriele si è divertito a scombinare l’ordine di servizio proprio per rimarcare come alcune di queste etichette riescano a contraddire gli stereotipi – es. l’eleganza per Margaux, la potenza per Pauillac – e a fornire letture assolutamente originali dei rispettivi territori.
Chateau de Lamarque
Uno dei primi chateau bordolesi: la struttura risale al XII secolo. Il territorio è quello dell’Haut Medoc, zona dove lo stereotipo vuole che si producano vini rustici e un po’ verdi. De Lamarque, però, evoca sensazioni diametralmente opposte rispetto a quel preconcetto: è una bomba di frutto – prugna, composta di mirtilli – con una vaga traccia floreale e un ricco assortimento di spezie dolci e toni balsamici a corredo. In bocca evoca il calore, la maturità dell’annata con una texture vellutata, tannini quasi impalpabili e un finale che insiste su rimandi fruttati e dolci di rovere. È degno interprete della Bordeaux del cambiamento climatico che occhieggia a territori più caldi.
Chateau Petit Faurie de Soutard
Spiazzante il passaggio dal vino precedente a questo Saint-Emilion Grand Cru che Gabriele considera “non facile da invidiare alla cieca”. Rende subito un’idea di austerità e delicatezza, con un frutto scuro, acidulo, qualche tono vegetale e un bel ricordo di pastiglia alla viola. È cremoso, polputo, ma senza eccessi; il tannino è leggero, soave e il finale, per quanto non troppo profondo, convince per grazia e raffinatezza. E’ un Saint Emilion atipico, abbastanza semplice, ma più vicino al gusto italiano di altre etichette più quotate.
Chateau Yon Figeac
Sempre Saint Emilion, ma con uno stile più classico, per quanto non esageratamente concentrato. Emergono profumi di cannella e legno di sandalo, rosa rossa, tabacco e grafite, amarena e un tocco di cioccolato. Il sorso goloso è giocato tra frutto ricco, avvolgente, tannino mai troppo invadente e una spinta sapida di buona lunghezza. Piace per equilibrio, compostezza e dà l’idea di poter anche invecchiare egregiamente.
Chateau Haut Bages Liberal
Azienda nel cuore di Pauillac che da qualche anno sta sperimentando la biodinamica in vigna e che si avvale della consulenza di Eric Boissenot, uno dei più grandi enologi bordolesi. Lo stile è sobrio con un naso elegante, tipicamente pietroso e scuro di mirtillo e ribes nero, violetta, cioccolato fondente, eucalipto. La trama tannica è più fitta e sposa il frutto fresco, fragrante, mai sopra le righe, che sfuma in un finale classico dai rimandi sapidi e finemente vegetali. Tra tutti è quello più facile da inquadrare nel suo territorio di provenienza.
Chateau Cadet Bon
Di nuovo Saint Emilion, ma qui c’è una presenza consistente di Cabernet Franc e una parte della massa che fa affinamento in anfore di terracotta. Lo stile è molto sobrio: emergono aromi aggraziati di yogurt ai mirtilli ed erbe officinali, ibisco, menta, un tocco di pepe. Il sorso è fluido e pimpante: il tannino del Franc smorza il frutto e dà carattere e personalità a una progressione molto raffinata su toni floreali e salini. Rappresenta l’anello di congiunzione tra lo stile rotondo, ricco della riva destra e quello tendenzialmente più elegante della riva sinistra.
Chateau Dauzac
Altro vino a trabocchetto che proviene da Margaux, “il comune dell’eleganza”, ma tira fuori una potenza e una ricchezza spiazzanti, con un frutto che ricorda la visciola sotto spirito, la prugna sciroppata e refoli di vaniglia, cioccolato al latte, incenso. In bocca è impetuoso, avvenente: il tannino è morbidissimo, i ritorni di frutto e di spezie da legno prendono il sopravvento nel finale denso, avvolgente, alcolico, a tratti goloso e a tratti un po’ faticoso.
Chateau La Patache
L’ultimo dei rossi è il preferito di Gabriele: un Pomerol sfaccettato, originale, che esibisce il colore più chiaro della batteria – segno di un’estrazione più leggera – e sfodera aromi particolarmente intriganti di rosa appassita e carcadè, cioccolato fondente, mirtilli rossi, erbe disidratate, un’idea di sottobosco. Il sorso è cremoso e voluminoso come da canone classico per il Merlot di Pomerol, ma anche fine e scorrevole, fresco al punto giusto e minerale sul fondo. E’ indubbiamente il più contemporaneo – e il più fluido – dei vini in batteria.
Chateau Bastor Lamontagne
Dulcis in fundo, un Sauternes che vuole essere l’archetipo del vino “dolce-non dolce”. Il segreto sta nel gestire meglio la botrite e nell’usare meno legno nuovo (non più del 20%) in modo tale da non appesantire il profilo. Il naso è assolutamente fresco, per niente stucchevole: zafferano e glicine, composta di pera, buccia di mandarino, zenzero candito e pietra focaia plasmano un bouquet che ricorda quello di un grande Riesling semi-secco. I 100 grammi di residuo zuccherino sono quasi impercettibili: l’acidità e la sapidità dominano un sorso profondo e vibrante che chiama il fois grais, il gorgonzola, un blu di bufala con i suoi ritorni di nocciola tostata. E’ il risultato – spiega Gabriele – di una svolta decisa che si è resa necessaria per far fronte alla crisi dello stile denso, sciropposo che andava di moda a Sauternes fine qualche anno fa.
Seguirà un articolo con tutti gli assaggi dei Bordeaux 2020 en primeur.