Felice a Testaccio: la cacio e pepe indimenticabile della cucina della gioia
di Raffaele Mosca
Atmosfera “friccicarella” di una serata in cui l’ondata africana si spezza, la brezza comincia a soffiare e viene voglia di stare fuori casa. Colgo al balzo l’occasione per visitare un’istituzione storica che nelle altre stagioni è impossibile da prenotare: Felice a Testaccio, una delle trattorie che hanno reso la cucina romana un fenomeno pop.
Si può dire qualunque cosa di questo indirizzo, si può rimarcare che è una macchina da guerra e che propone una cucina romanesca un po’ edulcorata, che strizza all’occhio ai turisti e non raggiunge i picchi di veracità del vicino Checchino. Eppure senza Felice e poche altre trattorie di vecchia data che si sono rinnovate, scrollandosi di dosso la rusticità delle bettole dove gozzovigliava Gasperino Er Carbonaro e rinunciando nel contempo all’orrenda estetica kitsch delle trappole turistiche, non avremmo Trecca, L’Avvolgibile, Santo Palato, e tutti gli altri indirizzi della nuova guardia che hanno cavalcato la rivoluzione romana del gusto, foraggiati da decine di pagine e profili social in cui si mettono in bella mostra carbonare ipercremose, amatriciane grondanti pecorino, filetti di baccalà scrocchiarelli e supplì filanti, a creare un immaginario irresistibilmente pornografico.
Terminato il periodo di chiusura forzata, Felice al Testaccio si è rinnovato e ha messo su un dehors su Via Mastro Giorgio, arteria testaccina, che viene già regolarmente preso d’assalto dai romani e dai (pochi) turisti. Faccio giusto in tempo ad accaparrarmi l’ultimo tavolino disponibile: è stretto, quasi angusto per chi come me ha una bella stazza, ma chi se ne importa! … Una battuta sorniona scambiata con il cameriere, qualche chiacchiera con la coppia di forestieri seduti al tavolo vicino, e mi ritrovo davanti un semplicissimo e centratissimo tortino di melanzane alla parmigiana, seguito dallo speciale del venerdì: filetto di baccalà racchiuso in una pastella spessa, ma non eccessiva, che rafforza l’elemento “crunchy” e sposa la polpa carnosa del ripieno.
Proseguo con il piatto che da solo ha decretato il successo dell’insegna negli ultimi anni e ha fatto da volano all’apertura della seconda filiale a Milano: la cacio e pepe portata in tavolo con un velo di pecorino sopra e mantecata al momento. Il risultato è al livello delle aspettative create dagli innumerevoli video che circolano in rete: la matassa volutamente inestricabile di tonnarelli freschi trattiene una salsa impareggiabilmente cremosa e perfettamente in equilibrio tra sapidità mai sopra le righe, dolcezza, aromaticità discreta del pepe. È una versione esemplare di un piatto facile da fare abbastanza bene e difficilissimo da fare benissimo.
Secondo round con altro must: saltimbocca alla romana in una versione che forse non raggiunge i livelli di quella di Trecca, ma è comunque ben al di sopra della media. Il prosciutto è abbastanza croccante, la fettina morbida e sottile, il sughetto saporito e per niente acidulo. È l’unica portata che si abbina veramente bene al vino quasi introvabile che pesco da una carta decisamente migliorata dall’ultima visita qualche anno fa: Uno 2015 di Tenuta di Carleone, Sangiovese con saldo di Merlot che sa di bosco e di drupe, di alloro e di tarocco siciliano, con un tannino scalpitante e un finale sanguigno, mordente, veracemente chiantigiano.
È ancora all’inizio di un bel percorso evolutivo e forse meriterebbe di stare da parte per qualche tempo, ma temo che le scorte andranno esaurite molto presto.
Chiusura in bellezza con il famoso tiramisú al vetro, servito in un bicchiere simil-Duralex che permette di gustarsi la superficie cioccolatosa alla prima cucchiaiata e dopo il caffé che bagna i biscotti sbriciolati sul fondo. La Cucina Italiana lo descriveva come “un’imperdonabile trasgressione alla fine di un pasto peccaminoso” ed io non posso far altro che confermare ogni parola.
Conclusione
Se sono in vena di rituali lenti e di sottile seduzione, scelgo la cucina dei grandi chef, che a Roma non mancano affatto. Ma la pornografia della “magnata vera” è quel che ci vuole per staccare la spina e godersi la tanto aspettata tregua dall’afa di mezza estate. Felice non sarà la trattoria più verace e più slow della capitale, ma gioca un ruolo di prim’ordine nella nouvelle vague della romanità culinaria e rimane un porto sicuro per chi cerca una tavola ultra-pop, dall’appeal universale, che, però, non si è trasformata in un marchingegno spenna-turisti. La cacio e pepe vale da sola la sosta e tutto il resto segue a ruota. Il servizio é svelto, efficiente, simpatico e anche la cantina, che in passata mi era sembrata l’anello debole della catena, comincia a riservare sorprese più che discrete.
Felice al Testaccio
via Mastro Giorgio 29
Tel. 06 5746800
Sempre aperto a pranzo e cena