Fattoria La Rivolta: il valore strategico dei bianchi per chi produce vino
Uno spettro si aggira per l’Italia: si tratta dei vini bianchi. Ancora una volta la critica enologica, come un po’ accade per la verità in tutti i settori, sembra andare in una direzione opposta alle tendenze del mercato e il dato incredibile è che la Campania è ancora più in ritardo nonostante parta da condizioni favorevoli. Ma andiamo con ordine.
Tra il 2005 e il 2020 si sono invertite nel nostro paese le produzioni di bianchi e di rossi. Quindici anni fa il rapporto era 57 a 43 a favore dei vini prodotti da uve a bacca rossa, quindi anni dopo il rapporto si è rovesciato con 58 a 42 a favore dei bianchi che hanno realizzato il sorpasso nel 2011, ossia più di dieci anni fa. Nonostante questo dato oggettivo, l’attenzione della critica, trasmessa poi anche ai produttori, è che il top wine di una azienda debba essere sempre un rosso ben strutturato. Il che può essere vero per le regioni a vocazione rossista come il Piemonte, la Toscana, l’Umbria, la Basilicata, la Puglia. Ma la Campania? Beh qui abbiano ancora un rapporto, su 24mila ettari di vigneto che producono 1,4 milioni di ettolitri (una goccia nei 50 milioni italiani) di 60 a 40 a favore del rosso. Eppure guardando il patrimonio ampelografico ci si aspetterebbe esattamente il contrario: abbiamo il tridente Falanghina, Fiano e Greco in grado di competere con qualsiasi bianco mondiale, a cui si aggiungono vini come l’Asprinio, il Biancolella, la Forastera, e ancora Coda di Volpe, Caprettone, Pallagrello Bianco, Fenile Ripoli, Ginestra e ancora altri minori (Grecomusc, Coda di Pecora). Insomma da queste semplici considerazioni si capisce che a Campania non sfrutta a dovere il grande potenziale che la porrebbe in testa a una tendenza comunque in atto nel paese. Anche perché il rosso principale della regione, l’Aglianico, ha ovunque competitor di rilievo, dal Barolo al Brunello, dall’Amarone al Primitivo, dal Gaglioppo al Montepulciano, dal cesanese al Nerello e al Nero D’Avola. In pratica ogni regione ha i suoi rossi importanti fata eccezione per le Marche, la Liguria e la Val d’Aosta.
Potenzialità straordinarie, come è emerso da una degustazione didattica fatta al San Pietro Bistrot di Torre del Greco con i bianchi di Fattoria La Rivolta di Paolo Cotroneo, tutti ottenuti da uve coltivate in proprio. Vediamo un po’.
Falanghina del Sannio 2018. A distanza di quattro anni la Falanghina si esprime al massimo del suo vigore con note di idrocarburi e di frutta croccante matura. Energica e magnifica al palato.
Coda di Volpe Sannio dop 2018. Una vera sorpresa, un bianco concreto, buonissimo, di grande tono, con una chiusura lunga, precisa, pulita.
Fiano Sannio dop 2017. Ecco il re dei vitigni bianchi campani, ancora acerbo ma già autorevole con un naso ricco di frutta a pasta bianca come la mela e note balsamica, ben strutturato al palato, lungo e suadente il finale.
Greco Sannio dop 2017. Da sempre un vino operaio, ossia disponibile a molti abbinamenti, assolutamente interessante e ancora fresco.
A seguire poi due chicche.
Coda di Volpe Taburno Sannio doc 2012. Una vera sorpresa una un bianco ben evoluto, ancora freschissimo, regolarmente in carta nel ristorante.
Greco 2006. Uno sfizio per appassionati, uva che torna ad essere arancione con il passare degli anni, ossia al colore del mosto. Note di idrocarburi, di pasticceria, ancora vivace al palato. Quasi da meditazione.
Insomma quattro varietà diverse che hanno dimostrato di evolvere bene negli anni e soprattutto in grado di competere con vini che costano spesso anche dieci volte di più e nonostante il protocollo tutto sommato semplice perchè basato sulla lavorazione in acciaio.
Dobbiamo aggiungere altro per confermare la straordinaria strada di successi che potrebbe attendere il vino bianco campano se i produttori, oltre la ritica, ci credessero di più?