Falerno, il vino dei Cesari. Il libro di Giuseppe Nocca
di Pasquale Carlo
«Edoné fa sapere: qui si beve per 1 asse; se ne paghi 2, berrai un vino migliore; con 4, avrai vino Falerno». Basta questa iscrizione ritrovata su di un muro dell’antica Pompei per comprendere come il Falerno fosse un vino particolarmente apprezzato dai Romani. Una preferenza assoluta, decantata da storici e poeti, per un vino che non mancava mai ai banchetti imperiali. «Falerno. Il vino dei Cesari» è il titolo del libro di Giuseppe Nocca, pubblicato dalla Arbor Sapientiae Editore. Una preziosa opera che è stata presentata a Villa Matilde di Maria Ida e Tani Avallone. Nel libro si ripercorre la millenaria storia del Falerno, che il poeta romano Silio Italico racconta essere stato un dono fatto dal dio Bacco ad un contadino, che lo accolse amorevolmente e generosamente; ospitalità che venne ripagata con un rigoglioso vigneto da cui prese vita questo vino straordinario. Per altri si tratta, invece, di un vino che nasceva da una piccola vigna di proprietà di Fabio Massimo il Temporeggiatore, che sopravvisse alle distruzioni perpetrate nel secondo secolo avanti Cristo dalle truppe di Annibale.
In questo lungo viaggio Nocca ci porta per mano fino all’ultimo decennio del Novecento, facendo riferimento all’importante anno 1989. Fu quello l’anno del riconoscimento del disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di Origine Falerno del Massico, nelle tipologie Rosso e Bianco. Sempre in quell’anno, la rivista ‘Vignevini’ pubblicò un prezioso contributo a firma di Mincione, Sigilli, Sidari, Spagna Musso, Di Matteo e Ceccarelli (degli atenei di Reggio Calabria e Napoli), frutto di un lavoro di ricerca portato avanti per anni nel territorio del Falerno.
Quello studio dimostrò che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento diversi vitigni si erano acclimatati in quest’area dell’Alto Casertano: tra i rossi all’aglianico e al piedirosso, varietà da sempre coltivate in questo territorio come nel resto della Campania, si erano affiancate le uve tintore, nero di Troia, sangiovese e il primitivo; tra i bianchi alla falanghina si erano aggiunte soprattutto trebbiano toscano, malvasia di Candia e moscato.
Nel frattempo era entrata in scena la figura di Francesco Paolo Avallone, il papà di Maria Ida e Salvatore, che mosso dalla sua grande passione per la civiltà romana (era assistente alla cattedra di Istituzioni di diritto romano all’Università di Napoli), strinse un legame fortissimo con la terra del Falerno, raccogliendone testimonianze e vitigni. Amore e passione lo aiutarono ad intuire le potenzialità produttive di questo territorio. Le norme e i regolamenti della Comunità Europea in materia di legislazione enologica dovevano ancora arrivare. Correva infatti l’anno 1965 quando l’avvocato diede vita alla cantina che oggi è diventata Villa Matilde, tracciando un solco che più tardi sarà seguito da altri produttori.
Rinasce così il «Vino dei Cesari», oggi ottenuto da uve falanghina per un minimo dell’85% per quanto concerne il Bianco; un utilizzo minimo del 60% di uve aglianico e di uve piedirosso fino al 40% per una delle due tipologie Rosso, che nella seconda versione prevede l’utilizzo minimo di uve primitivo all’85%. Quel primitivo che alla metà del Novecento costituiva la varietà più coltivata nella provincia di Caserta, rischiando poi l’estinzione e salvato proprio dal nuovo successo riscosso da questi vini imperiali.
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