Donne produttrici: il vino italiano al femminile 11| Marilisa Allegrini
Dopo una lunga serie sulle critiche di vino, il focus si sposta sulla produzione al femminile. Zone di ispirazione, stili produttivi e prospettive: ecco qual è l’approccio delle produttrici italiane.
Come membro dell’Associazione Nazionale Le Donne del Vino mi rivolgo alle produttrici di diverse regioni d’Italia per saperne di più.
Oggi lo chiediamo a Marilisa Allegrini
Marilisa Allegrini è socio amministratore del Gruppo Allegrini. È stata la prima donna italiana a comparire sulla copertina di Wine Spectator, nota e influente rivista del vino su scala internazionale. È da sempre ambasciatrice nel mondo dei vini di Allegrini. Partita per gli Stati Uniti a inizio anni Ottanta, è stata una pioniera del vino italiano e ha contribuito a far conoscere in tutto il mondo la Valpolicella, meritandosi il soprannome di “Lady Amarone”. Nel 2001 ha avviato insieme ai fratelli una politica di espansione della produzione in Toscana con la costituzione della Tenuta Poggio al Tesoro a Bolgheri (Li) e con l’acquisto della Tenuta San Polo a Montalcino (Si), raggiungendo così oltre 200 ettari di proprietà, a cui si aggiungono altri 100 ettari in affitto. Ricopre diverse cariche istituzionali, ultima in ordine è quella di membro del consiglio di indirizzo della Fondazione Arena, che gestisce l’Arena di Verona. È presidente di ISWA, associazione che riunisce 9 tra le più importanti cantine italiane. Allegrini fa inoltre parte di Altagamma e delle Famiglie Storiche, 13 famiglie produttrici di Amarone, e collabora con Intrapresae Guggenheim e la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. L’Amarone Allegrini e Solosole (Vermentino prodotto a Bolgheri) sono i vini d’onore del Museo Ermitage di San Pietroburgo. Nel 2008 Marilisa Allegrini ha acquistato a Fumane di Valpolicella la rinascimentale Villa Della Torre, opera di Giulio Romano e Michele Sanmicheli, oggi wine&art relais. Nel 2020 è stata nominata Cavaliere del Lavoro dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Quando e come hai iniziato a fare vino?
Io credo che per chi proviene da una famiglia di agricoltori come la mia, il rapporto con il vino nasce e cresce con noi. Vivendo molto in contatto con mio padre da ragazzina, si è trattato di un tema che ho respirato in modo forte anche per l’ottimo legame con lui. Nonostante questo amore per la realtà di famiglia, all’inizio non ero interessata a lavorare in azienda perché le famiglie agricole, soprattutto in Veneto, erano molto legate alla figura maschile così ho pensato di scegliere una strada più “femminile” e poiché amavo le materie scientifiche ho pensato di fare Medicina. Però mio padre mi ha condizionata non consentendomi di andare in un’altra città perché avrei dovuto allontanarmi da Verona dove non c’era la facoltà di Medicina. Così ho optato per gli studi di fisioterapia e ho lavorato per 5 anni in ospedale ma il richiamo famigliare è stato più forte della scelta professionale e sono rientrata in azienda. Ho iniziato nel 1981 e sono stati tempi eroici sia per lo sviluppo che l’azienda aveva sia per quello che rappresentava la Valpolicella così come l’Italia in generale che allora non aveva questo appeal a livello mondiale. È stato bello vivere quella fase così sperimentale, creativa e di grande stimolo soprattutto per una giovane che entrava nel mondo del vino dopo aver fatto studi completamente diversi.
Quali sono i tuoi riferimenti o le tue zone di ispirazione in Italia e all’estero?
Avendo sempre avuto l’ambizione di fare qualità, che nel 1981 non era scontata ma che era una scelta già fatta da mio padre perché per lui non doveva esserci nessun compromesso sul tema qualitativo, i riferimenti sono quelli qualitativi a livello mondiale. In Francia, mi è sempre piaciuta Bordeaux, più recentemente la Borgogna e, per i vini bianchi, l’Alsazia anche se forse non ha la stessa fama delle prime due. Questi sono stati i riferimenti anche in termini di degustazione per capire come si faceva qualità. Lavorando in una realtà con una sua identità molto precisa non posso dire che mi ispiro a Bordeaux o alla Borgogna, mi focalizzo su quello che il mio territorio può dare senza “copiare” nessuno ma facendomi il palato su terre dalla qualità indiscussa e con una forte identità. La valorizzazione del proprio DNA e delle proprie varietà è il segreto del successo aziendale. Ispirarsi è importante ma facendo base sulla propria identità.
Per quanto riguarda l’Italia, certamente il Piemonte e la Toscana. Mentre adesso ci sono dentro, all’inizio per me la Toscana è stato un riferimento molto importante, un luogo eclettico capace di valorizzare uve locali e internazionali e combinarle al fascino della storia e della bellezza dei luoghi, dell’arte. A me piace moltissimo legare un prodotto agli aspetti artistici e culturali.
Credi che lo stile produttivo possa cambiare tra uomo e donna?
La donna è un cruciale valore aggiunto a qualsiasi livello della filiera produttiva. Negli anni è stata più legata alle attività commerciali o promozionali, oggi ci sono tantissime enologhe veramente brave. In termini di stile credo che le donne sappiano esprimere concetti di grande valore che sono largamente apprezzati infatti diversi vini di donne sono sulla cresta dell’onda. Forse anche questa eleganza tanto ricercata e che sta diventando sempre più “trendy” rispetto all’opulenza del passato magari è frutto di un sempre crescente intervento femminile e numero di donne coinvolte nella produzione.
Qual è la tua firma stilistica?
Il vino deve essere rappresentativo della varietà da cui è prodotto ma questo è ovvio, gli aspetti organolettici danno l’imprinting caratteristico se si lavora con quelle uve in quel contesto. Poi però si può incidere sul modo in cui si lavora su quelle uve in vigna e in cantina. Io voglio esprimere freschezza che significa acidità, espressione aromatica ma anche possibilità di un buon invecchiamento senza note evolutive precoci. Mi piace che anche dopo anni in bottiglia il vino mantenga l’integrità del frutto e di conseguenza, appunto, l’eleganza. Però, a differenza del passato, eleganza non è sinonimo di vino esile in contrapposizione all’opulenza ma è un fattore fondamentale che può convivere con la struttura.
Quali sono le maggiori difficoltà nel fare vino in Italia oggi? E quali i vantaggi?
La maggiore difficoltà è certamente la burocrazia perché da un punto di vista geo-pedo-climatico l’Italia è unica e le tecniche sono molto evolute. È un paese “benedetto”, pari a nessuno per la produzione di vino e uve di qualità però è difficile lavorare con regole che a volte sono quasi vessatorie e che diventano un deterrente anche per investitori stranieri. Chi fa vino è quasi eroico soprattutto per chi parte da zero: dai diritti di reimpianto a tutti i passaggi necessari. Purtroppo è un problema trasversale a tutto il Paese e a tutte le attività lavorative ma forse per noi vale ancora di più. Nonostante all’estero il mondo del vino italiano abbia un forte potere evocativo restano queste difficoltà.
In che direzione sta andando il vino italiano secondo te?
Negli anni ‘80 inizia un nuovo capitolo perché allora le aziende che facevano qualità erano poche, oggi sono la stragrande maggioranza quindi la qualità si è dimostrata la scelta vincente, abbracciata da tutti i produttori anzi, oggi si fa a gara a chi fa il vino migliore. Vale per tutti, a qualsiasi livello. Ora, poiché le tecniche sia in campagna sia in cantina sono cresciute tanto e sono patrimonio mondiale, si fa vino buono in tanti posti. Però l’Italia ha un plus, come la Francia ad esempio, che non molti hanno, cioè il patrimonio artistico e culturale. Questo ci distingue e quindi, per me, quello che i produttori stanno facendo di nuovo è il lavoro sull’ospitalità per valorizzare ciò che ci rende in assoluto primi al mondo grazie alla storia profonda e a uno sviluppo artistico incredibile. Quindi credo sia fisiologico anche allo sviluppo delle aziende avvantaggiarsi di questo plus e dotarsi di strutture ricettive per la valorizzazione del patrimonio produttivo ma anche di quello artistico e culturale che ci circonda.
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