Degustazioni d’autore da le Notti della Falanghina. Grotta del Sole, 12 anni di Falanghina dei Campi Flegrei tra mare e vulcano
La risposta alla domanda se la Falanghina, vitigno a bacca bianca emblema della Campania, possa invecchiare bene, ha avuto l’ennesima conferma in positivo dopo l’entusiasmante verticale di falanghina dei Campi Flegrei di Cantine Grotta del Sole che ha chiuso le due notti dedicate alla Falanghina organizzate a Fabbrica dei Sapori di Battipaglia.
L’azienda della famiglia Martusciello rientra a pieno titolo tra le protagoniste della rinascita della viticoltura campana di qualità, dal 1992 parte un progetto di valorizzazione dei vini da vitigno autoctono della Campania: Falanghina, Piedirosso, Gragnano, Lettere, Asprinio d’Aversa. Il lasso di tempo dagli anni ’90 ad oggi è stato molto significativo per la comprensione di quello che la viticoltura campana è oggi: oltre 500 aziende distribuite tra le cinque province, dedite alla qualità, ai vitigni autoctoni, con sistemi moderni e tradizionali di allevamento della vite riconvertiti in direzione della qualità strettamente legata ai territori di provenienza.
Torniamo alla falanghina di Grotta del Sole, Francesco Martusciello, enologo e docente ai corsi Slow Food sul vino ha portato alla Fabbrica dei Sapori circa una decina di annate tra le quali scegliere. Ci racconta divertito e sorpreso della difficoltà di reperire certe annate come la ’98, che ha barattato con vecchi clienti contro cartoni di annata corrente per la felicità degli increduli enotecari o ristoratori. Tra le dieci annate, Francesco, con Monica Piscitellli che ha condotto la degustazione seleziona un intrigante percorso: Coste di Cuma 2008, 2007, 2006, 2005, 2003, e Falanghina base del 1998.
Il cru Coste di Cuma nasce da un progetto aziendale per studiare il comportamento della falanghina vinificata e affinata in legno. L’uso del legno per i vini bianchi viene spesso demonizzato, nonostante sia alla base dei grandi vini dei nostri cugini d’oltralpe. Il legno è solo uno strumento, che va usato con accortezza e moderazione, tra l’altro parliamo di un elemento vivo che respira e tiene in contatto il vino con l’ambiente esterno in ambiente ossidativo (in senso buono), laddove l’acciaio è un contenitore inerte dove il vino riposa in ambiente riducente ossia in mancanza di ossigeno. La filosofia produttiva del Coste di Cuma è variata nel tempo, fino al 2004 si produceva in regime biologico certificato, con bassissime quantità di solforosa, praticamente un attuale “vino naturale”, anche se questo termine, continua Francesco Martusciello, mi pare improprio, poiché tutti i vini sono veri e naturali. Il vigneto del Coste di Cuma ha quasi vent’anni, condotto a guyot, sostituito al tradizionale “spalatrone” dei Campi Flegrei, una spalliera massiva ed espansa alta fino a3 metri. Le rese e le densità sono state drasticamente abbassate in direzione della qualità.
La 2008 è l’annata attualmente in commercio, le uve arrivano dall’area a nord ovest di Napoli, comprendente i comuni di Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida e Quarto Flegreo. Il
terreno è di natura vulcanica, di tipo sciolto che ha evitato i danni della fillossera. Proprio la natura del terreno ha consentito che la vite sia coltivata a piede franco, ovvero non innestata su piede americano e vive sulle proprie radici. Il vino si eleva per 6 mesi in piccole botti di rovere francese , s’imbottiglia 12 mesi dopo la vendemmia e affina in bottiglia per almeno 6 mesi . Il colore della 2008 è vivace, rivela la freschezza e l’energia di un vino che è appena all’inizio del percorso evolutivo, al naso non è ancora molto intenso, rivela già note minerali che faranno da marcatore nel tempo e fiori bianchi. Al palato freschezza e sapidità se la giocano, rispecchiando in pieno le influenze vulcaniche e marine del territorio. In bocca è abbastanza morbido e chiude con piacevoli note leggermente esotiche.
2007, annata calda, colore decisamente più carico, la nota minerale è più marcata e si fonde con piacevolissimi sentori fumè, di tabacco da pipa. Percepisco leggere e gentili note ossidative che si fondono con frutta gialla matura ma non troppo evolute, si avverte una bella fragranza. Anche in questo bicchiere sapidità e acidità sono molto evidenti, il vino non ha ancora del tutto ingranato la marcia verso l’evoluzione completa.
Nel 2006 avvertiamo il cambio di passo, viene fuori tutta la tipicità della fallanghina dei Campi Flegrei, profumi leggeri di fiori recisi, intensità non esplosiva, sussurrata, deliziose note di erba cedrina che ritroveremo al palato, e un salto di acidità prepotente, quasi tattile, è meno opulento questo vino, ma è fresco, elegante e rinfrescante.
La 2005 segna lo spartiacque, si lascia la conduzione biologica per il sistema di lotta integrata in vigna, il colore è un giallooro caldo, al naso frutta decisamente matura e qualche nota ossidativa, in bocca un piacevole retrogusto amarognolo si fonde con note dolci contribuendo a creare una sensazione di morbida ma non stucchevole lunga scioglievolezza al palato.
2003, altra annata difficile e siccitosa, siamo in regime biologico, avvertiamo note ossidative più mature e complesse, sentori agrumati, una decisa opulenza , comunque sostenuta da freschezza e mineralità. Siamo decisamente di fronte ad un vino fresco e che rientra di diritto nella categoria dei vini “salati”, quasi un sorso di acqua di mare. La freschezza, ovvero l’acidità è, per il vino, come lo scheletro del corpo umano, lo mantiene in piedi con le ossa forti. Questa falanghina non soffre decisamente di osteoporosi!
Chiudiamo con un salto di dieci anni, falanghina base del 1998, Francesco l’assaggia per la prima volta con noi, parliamo di un vino di 12 anni, imbottigliato nel dicembre del ’99. Il colore è decisamente dorato, ancora brillante, al naso percepiamo lievi note balsamiche e mielose, mentre in bocca ritroviamo il filo conduttore della freschezza e della sapidità.
L’esito della verticale è chiaro a tutti: la Campania vanta un patrimonio ricchissimo di vitigni a bacca bianca atti a produrre vini da invecchiamento, sconta purtroppo un retaggio culturale duro da distruggere che vuole a tavola soltanto il vino bianco d’annata corrente e che storce il naso se solo si presenta una bottiglia di appena una vendemmia precedente, si grida all’imbroglio. Invece no, bisogna adoperarsi per educare prima le aziende e poi i consumatori, a bere vini bianchi d’annata ,poiché è il territorio che lo impone, falanghina, fiano, greco, coda di volpe hanno dimostrato di saper invecchiare e di essere vini piacevolissimi sulla tavola, molto flessibili nell’abbinamento, vini magari imperfetti, ma piacevoli, di spiccata personalità, intriganti, mai scontati, raccontano storie di territorio.