Dallo Champagne al Sake IWA, la nuova vita di Richard Geoffroy, ex chef de cave di Dom Perignon
di Raffaele Mosca
E’ un personaggio incredibile: tra i più grandi visionari dell’enologia mondiale nell’ultimo trentennio. Protagonista della scena champenoise per 28 anni, dopo aver scritto un pezzo di storia del vino più celebrato del mondo, poteva tranquillamente mettersi in pensione. E, invece, Richard Geoffroy, l’uomo della Plenitude e del rilancio di Dom Perignon, ha deciso di rimettersi in gioco un’ altra volta ed investire in un settore completamente nuovo, “ perché l’energia dei nuovi progetti è ciò che ti salva dalla fossilizzazione”.
E’ così che, spiazzando tutti, ha passato il testimone al suo vice Vincent Chaperon per dedicare anima e corpo a una nuova bevanda: il sake, che lo ha letteralmente folgorato nel corso dei suoi viaggi in Giappone. “ A un certo punto mi sono reso conto che, negli anni da Dom Perignon, avevo imparato ad assemblare qualunque cosa, anche il succo d’arancia a colazione – ci spiega – così mi sono detto: perché non diventare assembleur di Sakè? In migliaia di anni di storia, non ci aveva mai provato nessuno: ha sempre prevalso la linea della purezza. Io sto cercando di ribaltare questo concetto e i giapponesi hanno accolto con grande entusiasmo il mio progetto.”
Abbiamo avuto l’onore di assaggiare IWA alla sua presenza, nella cornice del Jardin de Russie di Roma, e di fargli qualche domanda. Ecco che cosa ci ha detto:
Monsieur Geoffroy, che cosa l’ha spinta a passare dallo Champagne al sakè?
Sarò sincero: da Dom Perignon ero nella mia comfort zone, non avevo più lo stimolo, l’impulso creativo che serve per innovare. Avevo bisogno di una nuova avventura, ma chiaramente, dopo essere stato lì per 28 anni, non avrebbe avuto senso ricominciare da capo in un’altra azienda vinicola. Se avessi potuto, mi sarei buttato nel mondo dell’architettura – altra mia passione – ma in quel campo non c’è spazio per l’ improvvisazione. Pertanto, ho scelto il sakè, un prodotto che mi ha sempre affascinato, che è nel DNA del Giappone e che ritengo sia il nuovo orizzonte del bere bene.
Da dove è partito? Esiste un sakè in particolare dal quale ha tratto ispirazione?
Si, ce n’è uno: si chiama Daichi-Ahi e viene dalla prefettura di Fukushima. Ma la novità che ho voluto introdurre è questa tecnica dell’assemblage. Con il mio toji (l’equivalente dell’enologo per il sakè, ndr) abbiamo scelto tipologie di riso differenti, svariati ceppi di lieviti e una serie di metodi produttivi per creare sakè differenti che poi andiamo a miscelare in un prodotto universale.
I giapponesi tendono ad avere difficoltà con le lingue occidentali. Come riesce a comunicare con i suoi collaboratori? Ha imparato il giapponese?
No, non padroneggio ancora la lingua, ma mi servo di un interprete. In questo modo riesco a dialogare con loro, anche se generalmente sono uomini (e donne) di poche parole. E’ chiaro che parte del messaggio si perde nella traduzione. Ma, nonostante questo, riusciamo ad intenderci, e riesco anche a carpire anche il sofisticato senso dell’humor del mio toji.
Il progetto è nato nel 2019. Come avete fatto a portarlo avanti durante la pandemia?
La pandemia ci ha consentito di fare qualcosa di completamente nuovo: realizzare per la prima volta un sakè in Champagne. Mi inviavano le ampolle del Giappone e io le assemblavo nella cucina di casa mia, nel bel mezzo delle vigne champenoise. E’ un’esperienza che mi ha permesso di ponderare sul concetto di terroir: nei momenti di isolamento, chiuso in casa con il sakè, ho acquisito maggiore consapevolezza del peso del fattore umano nel processo che porta all’espressione del terroir nel profilo sensoriale. Cultura e gusto sono strettamente correlati. Puoi concepire lo stesso prodotto, nello stesso luogo, dalla stessa materia prima e con lo stesso equipaggiamento, ma se le persone che svolgono le operazioni sono diverse, non avrai lo stesso risultato.
Pensavamo che avrebbe servito il sakè con la cucina giapponese. E, invece, il menu di stasera è tutto italiano. Ritiene che sia facile abbinare IWA 5 alla cucina italiana?
Non lo penso: ne sono convinto. Non amo le ostentazioni e per questo ho deciso di pescare piatti non troppo elaborati dalla carta del Jardin de Russie. Ritengo che l’elemento chiave per rendere possibile qualunque abbinamento sia l’equilibrio. E l’equilibrio è qualcosa di oggettivo, universale, insito nella nostra natura di esseri umani, che trascende i confini nazionali e culturali. L’assemblage è la via per raggiungere l’equilibrio assoluto, ed è per questo che ritengo che IWA possa abbinarsi a tutte le cucine: è proprio l’armonia dei sapori a creare ponti tra una tradizione e l’altra. E poi, se ci riflettiamo sopra, la chiave del successo dello Champagne è stata proprio questa: da che era un prodotto locale, è diventato un grande fenomeno a livello mondiale, e in ogni paese viene abbinato alla gastronomia regionale. In Giappone, per esempio, in tanti bevono il Dom Perignon con il sushi. E allora perché in Europa non dovremmo portare in tavola il sakè con i nostri piatti?
Prima lo Champagne, poi il sakè. Cosa verrà dopo?
Beh.. non lo so. In questo momento concentro tutte le mie forze su questo progetto. Mi aiuta ad evitare di essiccarmi come una prugna al sole. E penso di stare facendo un ottimo lavoro, tant’è che i giapponesi hanno accolto questa mia idea dell’assemblage con grande entusiasmo. E’ un espediente nuovo in settore che è sempre stato un po’ statico, e penso che possa dare nuova energia ad un mercato che, ad essere onesti, non è così florido come si può immaginare. I consumi di sakè sono diminuiti drasticamente nell’ultimo ventennio: c’erano 3200 aziende attive in Giapponese, ora sono poco più di 1000. Il problema è il confinamento del sake – in particolar modo quello di alta fascia – nel territorio giapponese. Il mio obiettivo è portarlo fuori, farlo conoscere agli estimatori dei grandi vini di tutto il mondo. Ecco, il mio target è proprio il pubblico del vino, non chi beve già sakè. Sono pronto a scommettere – e in effetti l’ho già fatto investendo – che questa platea si affezionerà sempre di più alla tipologia.
La cena e la degustazione di IWA 5
Purezza è la parola chiave per comprendere IWA, che rientra la categoria dei Junmai Daiginjo, vale a dire i sakè senza alcol aggiunto e con il massimo livello di levigatura del chicco di riso. Non aspettatevi grandi intensità olfattive, stratificazioni di profumi esasperate: non è questo che si ricerca nei sakè premium. Per Richard Geoffroy, come per tutti i grandi degustatori giapponesi, il liquido più pregiato è quello che ha l’aromaticità del fiore appena sbocciato e la fluidità dell’acqua. E proprio i fiori dominano il quadro a primo acchito: rosa bianca, violetta, peonia. Poi c’è la frutta – banana acerba, pompelmo, fragolina di bosco, melone estivo – seguita, al variare della temperatura, da ricordi di aloe e tè verde, confetto alle mandorle, un’idea di vegetazione bagnata e di roccia sfregata, un accento affumicato di miso.
Sul sorso, invece, bisognerebbe aprire una larga parentesi, perché cambia molto in base a temperatura di servizio e abbinamento. Nella sua assolutezza, a circa 14 gradi, è morbido, setoso, cremoso, confortante . In assenza di sensazioni tattili e di acidità, è l’alcol a dare dimensione alla progressione con il suo abbraccio rassicurante, che allenta la presa nel finale sussurrato, floreale e appena affumicato.
Tutto cambia quando lo si accoppia al cibo. Il primo abbinamento del percorso è quello più canonico e forse meno esaltante: con l’insalata di gamberi il sorso si assottiglia e tira fuori una nota amarognola che ripulisce il palato. Con i ravioli cacio e pepe, invece, diventa ancor più avvolgente e cremoso, quasi alla stregua di un bianco invecchiato, ma, allo stesso tempo, dà man forte alla parte pepata che viene amplificata in retro-olfatto. La spigola, poi, l’ asseconda e coccola il palato, sprigionando ricordi umami in chiusura. Sul dolce, infine, lo si serve in po’ più caldo e la texture diventa leggera, quasi acquosa, assecondante e capace di esaltare il fruttato della sfoglietta di pesche con gelato al pistacchio.
CONCLUSIONE
L’incontro con Richard Geoffroy è stato tra i più illuminanti in assoluto di quest’annata 2021. A vederlo che maneggia il calice con straordinaria delicatezza, pensieroso e meditativo, si comprende subito che non è un semplice tecnico del vino e del sakè, ma un filosofo, un direttore d’orchestra e un alchimista capace di trovare l’armonia in tutte le cose. La domanda che emerge a conclusione di questa presentazione è: chi, se non lui, con il suo innato senso della misura e dell’equilibrio, con questo prodotto rivoluzionario, può abbattere il muro che confina il sakè nella cultura del Sol Levante ed elevarlo al ruolo di liquido universalmente apprezzato?