Da mangiafoglie a mangiamaccheroni, storia della straordinaria metamorfosi partenopea
di Maurizio Paolillo
Il cibo di un popolo e la sua cultura rappresentano una realtà unica. L’identità di una nazione si definisce attraverso l’integrazione di questi due ambiti che finiscono per compenetrarsi e identificarsi l’uno con l’altro. In ultima analisi, il cibo è cultura.
Nell’Epopea di Gilgamesh, poema babilonese risalente al III millennio a.C., si fa coincidere l’inizio della civilizzazione umana con la capacità di produrre il pane e il vino. Già in quell’epoca remota, a definire la civiltà non è tanto il momento in cui gli esseri umani diventano agricoltori, ma quello in cui imparano a trasformare i prodotti della terra e iniziano a costruire la cultura del cibo.
Nella storia molti popoli sono stati identificati, non senza semplificazioni, dal cibo che costituiva la base della loro alimentazione: il riso per i cinesi, i fagioli per i messicani, il pesce crudo per i giapponesi.
A Napoli, dove la sovrapposizione tra storia, cultura e cibo è sempre stata pressoché totale, il cibo eponimo è oggi senz’altro rappresentato dai maccheroni. Non è stato sempre così: per lunghissimo tempo e fino alla metà del secolo XVII i napoletani erano i mangiafoglia.
I mangiafoglia
L’identificazione degli abitanti di Partenope con i vegetali rappresenta un’assoluta particolarità, specie se si tiene conto che l’alimentazione, dall’antichità fino all’alto Medioevo, era basata soprattutto su carni e cereali, prodotti molto energetici, poco voluminosi, disponibili a tutte le latitudini e, se essiccati, durevoli e trasportabili.
Per il popolo di Napoli la situazione è sempre stata profondamente diversa. Fino al 1600, il territorio metropolitano era ricco di orti. I terreni vulcanici, leggeri, facilmente lavorabili e ricchissimi di elementi nutritivi grazie agli apporti di materiali piroclastici, erano irrorati da corsi d’acqua brevi ma numerosi e ben distribuiti. Questa combinazione di fattori creava condizioni di fertilità straordinarie e irripetibili che consentivano di adottare tecniche colturali peculiari, caratterizzate dalla continua successione nel tempo e nello spazio.
Al livello del suolo si susseguivano coltivazioni a ciclo breve, spesso seminando la specie successiva tra le file della precedente e arrivando a realizzare 4-5 raccolti in una sola annata. La successione nello spazio era quella per piani verticali, realizzata consociando alle colture ortive quelle arboree di differenti taglie: al primo piano superiore costituito dalle viti, seguiva il piano mediano con gli agrumi, gli albicocchi, le mele annurche; ancora al di sopra si stagliavano noci, kaki e ciliegi.
In tal modo si ottenevano più prodotti contemporaneamente in tutte le stagioni, richiedendo un’intensità di lavoro della famiglia contadina che non consentiva pause ma garantiva la sopravvivenza di una famiglia su fazzoletti di terra che altrove non sarebbero stati sufficienti a dar da mangiare a una persona e per una sola stagione.
Grazie alle straordinarie condizioni agronomiche del territorio, accompagnate dalla relativa mitezza del clima di tutte le stagioni, il popolo della città riusciva a soddisfare buona parte del proprio fabbisogno alimentare grazie ai prodotti degli orti.
Questa dimensione che ispira una visione arcadica trova riscontro anche nell’opera di poeti e scrittori napoletani dell’epoca, che descrivono la propensione al consumo della foglia come una sorta di innata passione che si sovrappone e identifica con l’amore per la propria terra.
È Giulio Cesare Cortese, esponente fondamentale, insieme a Giovan Battista Basile, della letteratura napoletana barocca, che, nel suo Micco Passaro ‘nnammurato (1619), individua nella foglia l’elemento identitario della città:
…Napole mio, dica chi voglia,
non si’ Napole cchiù, si non aie foglia.
Ossia:
Napoli mia, lo dica pur chi voglia, / che non sei più Napoli, se non hai foglia.
Lo stesso Cortese, in una delle sue opere più note, Viaggio in Parnaso (1621), nel Canto VII, compone una sorta di lirica “amorosa” per la foglia:
Commo io vidde c’havea quarche tornese
Pigliaie de caudo, e me venette voglia
Bello tornaremenne à lo paiese,
Che mpenzarence schitto havea gran doglia;
Havea nfastidio già le bone spese
Io, ch’era usato schitto a carne, e foglia,
O foglia doce, ò foglia saporita,
De nuie aucre rechiammo, e calamita.
Ossia: Come mi accorsi che avevo qualche tornese / mi presero gran vampate di calore, e mi venne voglia, / di tornarmene subito al mio paese; / che al solo pensiero provavo un gran dolore
Già mi ero caricato di grosse spese / io, che ero abituato solo a carne e foglia; / o foglia dolce, o foglia saporita, / per noi richiamo e calamita
La foglia
All’epoca di cui parliamo il complesso degli ortaggi disponibili per le mense dei napoletani veniva definito genericamente verduma.Col temine foglia ci si riferiva in particolare alle piante appartenenti alla famiglia delle brassicaceae, che comprende cavoli, broccoli e simili.La predilezione maggiore era per il cavolo broccolo (Brassica oleracea cymosa), comprese le forme di natura selvatica.
Per la loro attitudine a vegetare e produrre a temperature relativamente basse, ai climi mediterranei, le brassicacee possono essere coltivate per tutto l’anno. In particolare sui terreni vulcanici tipici degli orti che circondano tuttora Napoli dà produzioni abbondanti e di qualità, con proprietà nutrizionali importanti.
Lo pignato mmaretato
Il piatto che incarna plasticamente l’idea dei napoletani come mangiafoglie è la minestra maritata, nella quale le verdure celebrano un matrimonio felice con le carni povere e i loro brodi. Si tratta di un piatto di culto della cucina partenopea, tipicamente invernale, ricco, grasso e succulento, che richiede impegno e tempo nella preparazione. Per queste ragioni è sempre meno presente sulle tavole delle case napoletane.
Ancora il Cortese, nel già citato Viaggio in Parnaso (1621), sempre nel Canto VII, fa dire al protagonista:
Apollo, che da vero è gran signore,
E penetra lo ntrinseco golio,
Me chiamma, e pe me fare gran faore,
Fece rescire lo designo mio,
Dicenno, io faccio chello c’haie tu n’core
Perche le cose cchiù secrete io spio,
Saccio ca tu si muorto, ed’allancato,
Pe no bello pignato mmaretato.1
(Apollo, che è veramente un gran signore, / e comprende le voglie più nascoste, / mi chiama e per farmi un gran favore, / fece realizzare il mio progetto, / dicendo: «Io so quel che tu hai nel cuore, / perché io vedo le cose più recondite, / so che tu sei morto, col desiderio smanioso / di una bella pentola di minestra maritata)
Esistono innumerevoli versioni della minestra maritata. La pietanza, infatti, riesce ad essere al tempo stesso piatto delle mense popolari e pietanza della festa. La variabilità è anche determinata dalla differente disponibilità stagionale delle verdure dell’orto e delle erbe spontanee.
Quella che proponiamo è la ricetta degli chef Lorenzo Montoro e Carmine Sedino del Ristorante “Il flauto di Pan” nell’Hotel Villa Cimbrone di Ravello. Si tratta di una versione aristocratica – ingentilita e alleggerita – del piatto popolare, in cui convivono alcuni elementi tipici della tradizione e popolare accanto ad ingredienti nobili (la gallina, il cappello del prete di manzo). Invece sono certamente elementi della cucina povera le ossa del maiale avanzate dalla preparazione dei salumi pregiati, che venivano conservate sotto sale e poi utilizzate per insaporire sughi e brodi. Oppure le pezzentelle1, uno dei prodotti più poveri ricavati dal maiale.
La pezzentella è un insaccato fatto con le parti meno nobili del suino: cotiche, carne di scarto ed interiora, con l’aggiunta di peperoncino ed altre spezie. È denominato anche nnoglia. In alcune aree della Campania si produce anche una altro insaccato chiamato salsiccione, distinto dalla nnoglia: il primo è prodotto dai tagli grassi che residuano dalla preparazione di prosciutti, soppressate e salsicce; la seconda è preparata con cotiche, frattaglie (fegato, milza e polmoni) e qualche ritaglio di pancetta, insaporite con varie spezie.
Non troverete indicazioni precise delle quantità dei diversi ingredienti, perché la ricetta va interpretata in funzione del gusto personale e soprattutto delle disponibilità delle materie prime.
Ingredienti
Le verdure: | Le carni: |
verza | gallina |
cicoria | cappello del prete (di manzo) |
minestra nera | tracchie (o costine di maiale) |
scarola | pezzentelle |
torzelle1 | cotechini |
erba cardoncello | ossa di maiale sotto sale |
tarassaco | |
sedano | Atri ingredienti: |
carote | croste di formaggio grana |
patate | |
cipolle | |
porri |
Preparazione
- Brodo di gallina
Sbianchire la gallina immergendola in acqua fredda e portare a bollore. Eliminare l’acqua di cottura, immergere in acqua fredda con sedano, carote, cipolle tostate e porri. Cuocere a fuoco molto lento per 3-4 ore e lasciar riposare.
[Per la tostatura delle cipolle, tagliarle a metà e tostarle in padella a secco dal lato del taglio fino alla doratura. Il processo conferisce gusto e colore al brodo].
- Brodo di manzo
Immergere il cappello in acqua fredda con sedano, carote, cipolle tostate, porri e patate. Cuocere a fuoco molto lento per 3-4 ore e lasciar riposare.
- Verdure
Mondare e lavare tutte le verdure. Lessarle leggermente e ciascuna separatamente e infine scolare.
- Carni di maiale
Rosolare le tracchie con un filo d’olio. Mettere a bagno le ossa sotto sale per almeno 24 ore. Sbianchire in acqua bollente le pezzentelle e i cotechini.
- Finitura e presentazione
Filtrare il brodo della gallina e spolparla. Filtrare il brodo di manzo, tagliare la carne a tocchi e recuperare le patate. Assemblare le carni di maiale, la polpa di gallina e di manzo, le verdure lessate e i brodi precedentemente filtrati. Cuocere ancora per circa 2-3 ore con le croste di formaggio e le ossa di maiale. Lasciare riposare fino al giorno dopo. Riscaldare e servire.
Torzella, torza riccia o cavolo greco (Brassica oleracea var. sabellica) è uno delle più antiche varietà di cavolo diffuse nel bacino del mediterraneo. Oggi è coltivata soprattutto nella zona dell’Acerrano Nolano, in provincia di Napoli. (http://www.agricoltura.regione.campania.it/tipici/tradizionali/torzella.html)
L’esplosione demografica del ‘600 e il tramonto della foglia
Il secolo XVII è per Napoli e per l’Europa un’epoca di profondi mutamenti. Il matrimonio tra Isabella I di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona, celebrato nel 1469, sancì l’unione delle corone di Castiglia e Aragona e la nascita del Regno di Spagna, di cui il Regno di Napoli diventò parte integrante. Nonostante la “leggenda nera” che circonda la Spagna tra Cinque e Seicento e che continuerà a circolare a lungo in Italia e in Europa, l’ascesa della sua potenza non è solo conseguenza della forza militare ma è anche l’innesco di un periodo di grande splendore in molti campi dell’ingegno umano. Una spinta propulsiva di cui Napoli fu uno dei motori più energici.
La fase del vicereame spagnolo è senza dubbio un’epoca di grande sviluppo urbanistico, economico e culturale, che trasformerà la città in uno dei massimi centri della Monarchia Universale spagnola, oltre che una delle grandi capitali d’Europa.
Tutto ciò è accompagnato da una vera e propria esplosione demografica: la popolazione di Napoli passa dalle 30.000 unità dell’inizio del XV secolo, alle circa 150.000 della metà del XVI, superando le 400.000 del 1656, quando una gravissima pestilenza dimezzò la popolazione. Alla metà del secolo XVII Napoli è la più grande città italiana (la seconda, Venezia, conta 180.000 abitanti) e contende a Parigi il primato tra le città europee. Nella regione del Mediterraneo solo l’agglomerato urbano di Costantinopoli è più popoloso (650.000 abitanti circa).
Si tratta di uno sviluppo straordinario che non procede per impulso autonomo della città, ma è stimolato dagli eccezionali privilegi ad essa riconosciuti dagli spagnoli, in conseguenza della concezione centralistica della monarchia di Madrid, mossa dall’idea che chi controlla la capitale controlla la nazione.
Innanzitutto venne conferito alla città partenopea il privilegio annonario, grazie al quale il rifornimento di generi alimentari è assicurato e il pane era venduto a prezzo controllato.
In secondo luogo, vigeva il privilegio del Foro, per cui tutte le cause riguardanti i cittadini del Regno devono essere discusse nel Tribunale di Napoli.
E ancora la concentrazione dell’Amministrazione: tutta la burocrazia politica, giudiziaria e militare venne concentrata nella Capitale.
Di conseguenza, il ceto baronale si trasferì integralmente in città determinando l’ulteriore sviluppo dei consumi e della ricchezza.
La crisi economica e alimentare
Il Seicento è anche il secolo in cui l’intera Europa è attanagliata da una profonda crisi, riconducibile a svariati fattori: i lunghi e numerosi conflitti, il brusco abbassamento delle temperature (la piccola glaciazione) e il calo delle rese agricole, la crisi industriale.
A patire più di tutti la crisi furono, ovviamente, le classi povere. Uno dei segni più evidenti è la forte contrazione dei consumi di carne, che negli anni precedenti aveva rappresentato il complemento naturale all’impiego della foglia. Basti considerare che il numero di bovini macellati scende dai circa 30.000 capi di metà Cinquecento con una popolazione di circa 200.000 abitanti, ai 21.000 circa per una popolazione raddoppiata1.
In questo scenario a Napoli si registra, almeno fino alla peste del ’56, un continuo e sensibile incremento della popolazione cittadina, a cui consegue un forte sviluppo edilizio, avvenuto soprattutto sotto il governo del Viceré Pedro de Toledo2.
Vengono realizzati i Quartieri Spagnoli, molti borghi originariamente extra moenia, come Vergini, Stella, Sanità, Materdei, crescono fino a saldarsi con la città.
L’evoluzione urbanistica, accompagnata dal necessario ampliamento della cinta muraria realizzato nel 1547, sottrasse ingenti superfici agli orti urbani che avevano svolto fino ad allora un ruolo determinante nella soddisfazione dei bisogni alimentari della popolazione.
La produzione agricola doveva essere in gran parte importata dalle aree del circondario e dalle province più lontane. Tuttavia, considerato lo stato dei mezzi di trasporti e della viabilità dell’epoca, il trasporto per lunghi tragitti risultava estremamente problematico per merci estremamente deperibili come le verdure, oltretutto ricchissime di acqua e dallo scarso valore energetico.
Il problema della massa alimentare necessaria a soddisfare l’enorme concentramento di persone della città non poteva quindi essere risolto col solo ricorso alla foglia.
L’invenzione dei maccheroni
Una prima soluzione alla crisi si inizia a concretizzare con l’importazione dalle province di grandi quantità di una merce secca, poco deperibile e ben più nutriente: il grano. Il processo che, però, determina la trasformazione dei costumi alimentari dei napoletani è lo sviluppo dell’industria della pasta secca.
La pasta aveva già, all’epoca, una storia antica che non inizia certamente a Napoli. Le prime testimonianze in occidente risalgono alle colonie magno greche di Sicilia; viene poi adottata anche dai romani (le lagane di cui parla Orazio e che saranno le progenitrici delle lasagne). In alcuni ricettari arabi di X e XI secolo compaiono le prime tracce della pasta secca, in un formato chiamato atriya.
Ciò che spariglia le carte e determina una svolta nella storia è l’invenzione del torchio meccanico, denominato a Napoli emblematicamente ‘o ‘ngegno – l’ingegno – la cui introduzione si fa risalire al terzo decennio del secolo XVII. Questa tesi trova conferma in una fonte non convenzionale, ma assai rivelatrice: nella Laude de li Maccarune del 1646, Filippo Sgruttendio de Scafato, pseudonimo di Giuseppe Storace d’Afflitto, parla dei maccheroni con questi versi appassionati:
Belle ianche,
vranche a branche
da lo ’nciegno quann’ascite,
s’a no panno
spase v’hanno
la via lattea mme parite.
Ossia: Belle bianche, / a manciate / quando uscite dal torchio, / se su un panno / vi hanno distese / mi sembrate la Via Lattea.
Ancora antecedente è la testimonianza di Giovan Battista Basile, che in un passaggio del suo Lu cunto de li cunti dice del protagonista:
Jennariello, ch’essenno passato pe la trafila,
mo se ne jeva mbruodo de maccarune.
Gennarino, che essendo passato per la trafila, / adesso se ne va in brodo di maccheroni (Giovan Battista Basile, Lu cunto de li cunti, novella IX, quarta giornata)
L’impiego del torchio, unitamente alle trafile, consente di ottenere grandi quantità di prodotto in diversi formati in tempi relativamente rapidi e con una riduzione notevole dei costi di produzione, trasformando un’attività artigianale in una proto industriale. Un fatto che condizionerà, da allora in avanti, insieme alle abitudini alimentari, anche l’economia, la vita sociale, gli usi e costumi della popolazione.
Non a caso la corporazione che all’inizio del Seicento si chiamava ancora arte dei vermicellai, dalla metà del secolo assumerà il nome di arte dei maccaronari, un termine che è più direttamente riconducibile alla produzione con l’ausilio del torchio meccanico, ‘o ‘ngegno.
A seguito del formidabile incremento dei consumi, anche l’andamento dei prezzi delle derrate alimentari inverte il suo corso: nel periodo compreso tra i primi decenni del Seicento e gli ultimi anni del secolo, il prezzo della pasta comune decresce di circa il 20%.
La domanda di pasta, sostenuta anche dalla discesa dei prezzi, fa registrare un crescente incremento, a cui non erano in grado di far fronte i pastai della capitale, a causa delle limitazioni conseguenti ai rigorosi regolamenti corporativi vigenti in città. Va da sé che a soddisfare il fabbisogno della metropoli in continua crescita contribuiscono sempre più altri centri di produzione, quali Torre Annunziata, Portici, Resina, Gragnano, Amalfi, alcuni dei quali resteranno centrali anche nei secoli seguenti.
Nel Settecento, la trasformazione dei napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni è compiuta e l’identificazione di Napoli come capitale dei maccheroni indubitabile, come confermano le testimonianze di scrittori da Jérôme de Lalande o Paul-Jacques Malouin fino a Goethe e Leopardi, per non dire di Thomas Jefferson, padre fondatore degli Stati Uniti d’America, che nel 1789 introduce nel suo paese, proprio da Napoli, il torchio per la fabbricazione dei maccheroni.
Apollo e Bacco: i vitigni e i vini del Vesuvio
L’apice del Monte Parnaso si divide a formare due cime: una consacrata al culto del Dio Apollo, l’altra dedicata a Bacco (Dioniso per i greci).
Giulio Cesare Cortese nel più volte citato Viaggio di Parnaso rivolge la sua invocazione ad Apollo, dio della musica, delle scienze e dell’intelletto.
Non mancano, nella letteratura barocca napoletana, le opere dedicate al dio del vino e dei misteri, come il poemetto Bacco arraggiato co Vorcano di Giovan Battista Bergazzano9, in cui il dio accusa il Vesuvio di aver distrutto la sua vigna «…che faceva na lagrima socosa e no Greco de spanto…»10
La vitivinicoltura campana ha una storia lunga e illustre, preesistente alla colonizzazione greca. Qui erano ubicate le vigne di Roma e loro vini erano celebrati dai grandi scrittori della romanità: Virgilio, Plinio il Vecchio, Petronio Arbitro. Così come hanno continuato ad essere lodati in seguito dagli autori non solamente napoletani dei primi trattati sistematici di viticoltura ed enologia: Giovanni Battista Della Porta, Sante Lancerio, Andrea Bacci, Guglielmo Gasparrini.
È una vicenda popolata anche di mille leggende, la più suggestiva delle quali è quella del vino Lacryma Christi del Vesuvio, emblematica del legame delle genti locali con la particolare bellezza del sito oltre che della sua straordinaria vocazione alla viticoltura. Lucifero, lasciando il Paradiso da cui era stato scacciato, ne rubò un pezzo e lo porto con sé sulla Terra; quel pezzo era il Golfo di Napoli. Il Signore Gesù, addolorato per la perdita irreparabile, inizio a piangere a dirotto. Le sue lacrime, cadute sul suolo arido del Vesuvio, lo fertilizzarono e favorirono la nascita delle viti da cui si ricava il prestigioso vino.Le aree vulcaniche del circondario di Napoli (Vesuvio, Campi Flegrei, Ischia) hanno sempre rappresentato territori di elezione per la viticoltura e un punto di forza dell’economia locale.
La fama dei più diffusi vitigni e dei relativi vini travalicavano i confini del Regno. Alcuni di essi conservano ancora un ruolo preponderante della vitivinicoltura campana.
In epoca barocca è di nuovo il Cortese a farci da guida: nel citato, nel raccontare delle prelibatezze alimentari con cui viene deliziato il protagonista del Viaggio in Parnaso, elenca:
…maccarune, pasticce, caso, e pane,
e grieco, mangiaguerra e mazzacane…11
Se i primi sono i cibi che simboleggiano l’abbondanza, i secondi sono i vini che, a quel tempo, erano evidentemente considerati più schietti e ricercati.
Greco
Il nome Greco era ed è rimasto estremamente diffuso per indicare vitigni presumibilmente introdotti dai coloni greci nella nostra penisola.
Il vitigno a bacca bianca che ancora oggi viene individuato con tale nome e che dà origine al vino Greco di Tufo docg trova originaria diffusione molto probabilmente nell’area del Vesuvio, tanto da essere noto allora come Greco di Somma.
Sante Lancerio riferisce che il vino ottenuto da tale vitigno «è possente, di notevole serbevolezza ed estremamente alcolico».
Andrea Bacci afferma che il Vesuvio era famoso ai suoi tempi per il «vino Greco», perché considerato il migliore non solo in Italia ma in tutta Europa.
Il domenicano Leandro Alberti14 riporta che, nella località vesuviana di Torre Ottava, la coltura era così tanto diffusa che la stessa assunse in seguito il nome di Torre Greca, oggi Torre del Greco.
Mangiaguerra o Guarnaccia
Il Bacci lo chiama Mangiaverra per il fatto che le uve erano preferite dai cinghiali, presenti nelle selve prossime ai vigneti del Vesuvio. Secondo molti autori i grappoli sono spargoli, con acini turgidi, di colore nero intenso. Il vino è aspro, robusto, molto sapido. Il Gasparrini15 riferisce che il vitigno, a maturazione tardiva, era molto presente nei vigneti del Vesuvio, fino alle zone litorali.
Equano (o Acuano) – Mazzacane (o Massaquano)
Non è del tutto chiaro se ci si riferisca a due vitigni diversi o a uno solo che assumeva diverse denominazioni. In ogni caso si tratta di uve evidentemente diffuse all’epoca ma di cui poi si sono perse le tracce.
Dalle fonti si potrebbe desumere che il primo sia un vitigno a bacca nera diffuso nell’area di Vico Equense, da cui il nome. Se ne ricavava un vino dal colore rossastro e leggero, poco serbevole, tanto da essere consumato in meno di cinquanta giorni dalla vinificazione.
Il Mazzacane sarebbe un vitigno a bacca bianca, diffuso proprio nella omonima località nei pressi di Vico Equense. Il vino era riferito di colore aureo, poco acidulo, leggero e poco serbevole, tanto che difficilmente raggiungeva l’estate successiva senza alterarsi.
Aglianico
Il Bacci è forse il primo a parlare di un vitigno Aglianico coltivato alle pendici del Monte Somma. L’autore lo pone al terzo posto per diffusione, dietro a Mangiaguerra e Lacrima, nome con cui si riferiva probabilmente al Piedirosso. Sempre secondo il Bacci, le uve non erano troppo scure, profumate e succose; davano un vino fragrante, dal colore rubicondo, robusto e capace di conservarsi a lungo.
Il nome si è fatto sempre discendere da Hellenico, ma tale ipotesi suscita forti perplessità. Innanzitutto non vi è traccia negli autori classici latini di un vitigno Hellenico. Lo stesso termine non sarebbe presente nella lingua latina: i Romani, infatti, hanno sempre usato il termine Greci, mentre con Elleni individuavano tribù che potremmo definire barbare. Nella lingua italiana il termine ellenico è entrato in uso nel Seicento, mentre l’esistenza di un vitigno di nome Aglianico (o Glianico) è documentata già dal Quattrocento sulle pendici della collina dei Camaldoli, a Napoli.
Nel citato De naturali vinorum historia, Andrea Bacci precisa che: «…intermedio tra il Mangiaguerra e il Lacrima è il vino Aglianico, così detto …per il tipo di uve da cui si spreme, che non sono così nere, ma si riempiono di un succo rubicondo e leggermente rosso…». Questo passo farebbe discendere il nome dal colore del succo e lo farebbe derivare dal greco aglaios (splendido), aglaia (splendore).
Per’e Palummo (o Piedirosso)
Giovanni Battista Gagliardo16, nel suo Istituzioni teorico pratiche di agricoltura (Roma 1791), cita un’uva Palombina e la definisce, assieme all’Aglianica, la più dolce che ci sia. Il Gasparrini afferma che i grappoli sono di media grandezza, con acini neri arrotondati e peduncoli e raspi di colore rosso. Il vitigno, molto diffuso nell’area vesuviana, era molto apprezzato dai vignaioli per la sua resistenza alle avversità ed era in grado di dare un vino poderoso.
Caprettone (o Coda di Volpe del Vesuvio)
È un vitigno che solo di recente ha trovato, tra gli studiosi, una sua precisa collocazione, penalizzato storicamente dall’erronea identificazione con la Coda di Volpe bianca, diffusa soprattutto nel Sannio e in Irpinia. Il Della Porta17, nel suo Villae libri XII pubblicato a Napoli alla fine del 1500, rileva che il vitigno identificabile come Caprettone è presumibilmente il progenitore della Coda di Volpe bianca. Vincenzo Semmola, che nel 1847 effettua un puntuale censimento delle uve del Somma-Vesuvio, non cita nessun vitigno con questo nome, anche se in alcune delle varietà descritte e identificate con nomi diversi (uva rosa, uva signora o uva pane) si può riscontrare una certa corrispondenza col Caprettone. È il primo vitigno vesuviano a essere vendemmiato e dà uve acidule e zuccherine.
Bibliografia
- Juan-Pablo Di Gangi, Il genio della necessità. Una storia della cucina napoletana, in Porthos 28, Porthos Edizioni, Roma, 2007
- Giuseppe Galasso, La storia del regno di Napoli, UTET, Torino, 2008
- Emilio Sereni, Note di storia dell’alimentazione del Mezzogiorno: I napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni, Argo, 1998 (1° edizione: in “Cronache meridionali”, 1958)
- Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Bari, 2006
- Franco La Cecla, La pasta e la pizza, il Mulino, Bologna, 1998
- C. Pasquarella, G. D’Auria, P. Lauro, Uve e vini della Campania nella letteratura: dalla civiltà Romana al Gasparrini, Università degli Studi di Napoli Federico II – Dipartimento di Arboricoltura, Botanica e Patologia vegetale, Portici, 2013
- Giuseppe Ferraro, I vini d’Italia giudicati da Papa Paolo III (Farnese) e dal suo bottigliere Sante Lancerio, Eredi del Barbagrigia Stampatori, Roma, 1890
- Maurizio Paolillo e Juan-Pablo Di Gangi, L’Aglianico in Campania. Le forme del vitigno splendente, in Porthos 25, Porthos Edizioni, Roma, 2006
- Michele Manzo, Antonella Monaco e al., La risorsa genetica della vite in Campania, Se.S.I.R.C.A. Regione Campania, Napoli, 2001
1 Joseph Jérôme de Lalande, Voyage d’un François en Italie fait dans les années 1765 et 1766, DeSaint, Parigi, 1769
2 Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga (1484 –1553) fu viceré di Napoli dal 1532 al 1553 sotto il regno dell’Imperatore Carlo V d’Asburgo.
3 Filippo Sgruttendio de Scafato, Tiorba a Taccone. Corda IX, Laude de li maccarune. Cavallo, Napoli, 1646
4 Belle bianche, / a manciate / quando uscite dal torchio, / se su un panno / vi hanno distese / mi sembrate la Via Lattea.
5 Giovan Battista Basile (1566 –1632), letterato e scrittore, è stato il primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione popolare; con la sua opera più nota, Lo cunto de li cunti, overo lo trattenemiento de peccerille (Napoli 1634-1636), definisce il modello narrativo del genere fiaba.
6 Gennarino, che essendo passato per la trafila, / adesso se ne va in brodo di maccheroni (Giovan Battista Basile, Lu cunto de li cunti, novella IX, quarta giornata)
7 Joseph Jérôme de Lalande, Voyage d’un François en Italie fait dans les années 1765 et 1766, DeSaint, Parigi, 1769
8 Paul-Jacques Malouin, Description et détails des arts du meunier, du vermicelier et du boulenger, Nouvelle édition, 1779
9 Giovan Battista Bergazzano (1576 – ?) fu cerusico, poeta e drammaturgo, apprezzato soprattutto per la trilogia poetica dedicata alla catastrofica eruzione del1631
10 …dava un vino lacrima succoso e un greco che era una meraviglia… (Giovan Battista Bergazzano, Bacco arraggiato co Vorcano. Descurzo ntra de lloro, Napoli, ?
11 maccheroni, pasticci, formaggio, e pane, / e greco, mangiaguerra e mazzacane
12 Sante Lancerio bottigliere del Papa Paolo III Farnese, pontefice dal 1534 al 1559, è considerato il primo sommelier della storia italiana [cfr. (7) in bibliografia]
13 Andrea Bacci, professore di botanica e medico di Sisto V, Papa dal 1585 al 1590, pubblica, in latino, 1596 De naturali vinorum historia de vinis Italiae, opera monumentale che tratta per la prima volta in maniera esaustiva la materia enoica
14 Leandro Alberti (Bologna, 1479 – 1552) è stato storico, filosofo e teologo
15 Guglielmo Gasparrini (1804 –1866) fu uno dei più valenti botanici dell’Ottocento, professore all’Università di Napoli e Direttore dell’Orto botanico cittadino dal 1861 al 1866.
16 Giovanni Battista Gagliardo (1758 – …) è stato autore di trattati di agronomia ed enologia.
17 Giovanni Battista Della Porta, (1535 –1615), è stato un uomo poliedrico, di grande erudizione, filosofo, alchimista, scienziato e scrittore.