Crisi del vino? La verità è che abbiamo smesso di voler essere adulti


Giulia Gavagnin

di Giulia Gavagnin

Da mesi si recita il “de profundis” al vino. Consumi in calo, bevanda da vecchi, comunicazione obsoleta, autoreferenzialità, prezzi troppo elevati: tutti fattori che allontanano i giovani dal mito del Dio Bacco.

Negli ultimi tempi sono stati spesi fiumi di parole a proposito, ma sarà tutto vero?

Sbirciando qua e là tra gli innumerevoli interventi ne ho trovati due particolarmente interessanti, che pongono qualche valido spunto di riflessione.

Il primo è un’intervista di Loredana Sottile al Master of Wine Andrea Lonardi, pubblicata nel Gambero Rosso di Dicembre 2024.

Il secondo è il recentissimo intervento ne “Il Foglio” del 15 gennaio 2024 di Camillo Langone, scrittore colto, polemico e notoriamente grande appassionato di vini, soprattutto naturali (egli li definisce “vivi”).

Due punti di vista assai diversi, per il differente approccio ermeneutico dei due personaggi. Tuttavia, entrambi validissimi.

Andrea Lonardi afferma essenzialmente che ci sono due approcci al mondo del vino: per moda o per cultura. Per anni bere il vino, in particolare un certo tipo di vino (quello che apporta “soddisfazione edonistica” secondo il MoW) è stata una moda da esibire nella propria cerchia di conoscenti poi, con l’avvento dei social, su questi ultimi. Parliamo di Brunello, Sassicaia, Supertuscan e, ca va sans dire, Champagne. Oggi sono questi i vini particolarmente in crisi, perché il loro “showing-off” è stato sostituito da mode legate al well-being e al leisure: “biciclette, benessere, sport”, conclude Lonardi. Per il quale, talune gestualità legate al modo di bere del passato, ad es. roteare il bicchiere, fa apparire il mondo del vino ai giovani appartenenti alla “Gen Z”, particolarmente “cringe”. Tuttavia, continua, l’esperto veronese, non è vero che i giovani non bevono più vino: lo fanno in modo diverso, magari più consapevole, cercando produttori ed etichette che rispecchiano maggiormente il loro modo d’essere. Sicuramente, stanno distruggendo gli stilemi, soprattutto quelli goffi, appartenuti ai loro genitori. Del resto, si sa, ogni generazione cerca di distinguersi da quella precedente.

Camillo Langone, invece, pone la questione esclusivamente sul terreno culturale.

L’arguto scrittore boccia le più comuni tesi sulla crisi del vino. “Il vino è da vecchi”: non è vero, “ormai patiscono pure i cocktail”. I vino è da ricchi: falso anche questo. “Il prezzo è un problema del Brunello e non del Tavernello che costa meno di due euri al litro”. “L’alcol fa male e i giovani sono salutisti. Spiegatemi allora il boom degli psicofarmaci presso gli adolescenti. Sertralina al posto di falanghina, trazodone invece di montefiascone, sai che vantaggio per fegato e reni”. Allora, la cause vere sono altre, “sono culturali e si riassumono nella presente deculturazione, che è innanzitutto fine della religione”: i giovani non sono più cristiani, non sono più interessati a sapere qualcosa del sangue di Cristo. “Sono pagani, ma non in senso dionisiaco, credono in Bio, il dio delle tisane con la certificazione “organic”.”E poi, “non leggono Baudelaire, non leggono Brera, forse non leggono Bukowski, i magnifici quattro che da ragazzo mi condussero sulla via dell’ebbrezza”. Conclude citando – molto a proposito- Rousseau: “un selvaggio che assaggia per la prima volta il vino per la prima volta fa smorfie di disgusto e lo sputa”. Tratta da “Emilio o dell’educazione”.

Educazione, appunto.

Personalmente, concordo molto con Lonardi quando tra le righe afferma di non gridare “al ladro” perché i buoi non sono ancora scappati. I giovani hanno sempre voluto fare i bastian contrario con i genitori, le mode sono sostituibili, i grandi fenomeni culturali restano, a patto di comprenderne i cambiamenti, poiché si sa che nessuno si bagna due volte nello stesso fiume.

Di Langone condivido l’approccio culturale, meno quello religioso perché davvero non conosco nessun appassionato che si sia approcciato al vino in quanto sangue di Cristo, ma in questa mistificazione lo scrittore lucano è maestro.

La citazione di Rousseau, tuttavia, offre il destro per un’affermazione che messa lì, nuda e cruda, nessuno ha ancora osato: la crisi del vino dimostra che nessuno vuole diventare adulto.

Alle nostre latitudini, e parliamo di Nord Italia e di Francia vitivinicola, bere vino era considerato un rito di passaggio dall’età infantile a quella adulta, che nelle società contadine coincideva con la conquista della capacità generativa e lavorativa, non certo l’epoca dei “bamboccioni” del defunto ministro Padoa Schioppa. Lasciando da parte inutili ironie sull’abitudine di curare il raffreddore con latte caldo e grappa o brandy (cognac ovviamente per i francesi) che farebbe invocare oggi l’intervento del Telefono Azzurro da parte di alcuni seguaci dell’ideologia woke, i nostri progenitori contadini erano soliti mettere “a tradimento” due dita di vino nell’acqua affinchè si abituassero a bere vino. All’inizio la sensazione era orribile, a mano a mano ci si abituava. Mio nonno mi disse che da piccolo era sempre malaticcio e con l’abitudine di bere vino rosso e mangiare carne di maiale a partire dai quattordici o quindici anni non si prese più neanche un raffreddore.

Certo, era una società completamente diversa, non era glamour, le calorie del vino erano indispensabili per affrontare lavori manuali: non dimentichiamoci che tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta il consumo pro-capite di vino si attestava sui 130 litri/anno contro i 45 del decennio scorso e quel che si beveva non era certo Sassicaia.

Tuttavia, il percorso di avvicinamento al vino era graduale: ai bambini il suo sapore era inviso, in età adolescente era tollerato il fragolino (oggi non più commerciabile poiché non proviene dalla vitis vinifera ma da una vite americana, la specie Isabella) per chè era dolce. Il vino iniziava a diventare davvero gradito sui 17-18 anni per essere apprezzato pienamente intorno ai 24-25. Che, in fondo, è l’età in cui la mia generazione ha più o meno smesso di consumare le bevande alcoliche da bar o da discoteca per approcciarsi seriamente al vino.

Perché, piaccia o no, il sapore del vino, specialmente il vino rosso, è da adulti.

Così come lo sono alcune carni o alcune specialità regionali a base di carne, come la selvaggina, le interiora e in generale il quinto quarto.

Conosco giovani donne che ancora si irrigidiscono quando nei ristoranti di haute cuisine viene loro proposto il piccione, figurarsi se con la zampetta.

Ricordo una scena quasi da svenimento quando Moreno Cedroni a un’amica portò il suo famoso piccione al Garam Masala con tutto il suo corredo animale. Del resto era abituata a cibo edulcorato da supermercato, petto di pollo per restare in linea e la flebo di ormoni susseguenti.

Le dissi che non aveva mai sviluppato un gusto adulto, e se la prese (cosa non difficile da credere, visto che viviamo in quella che Guia Soncini definisce “l’era della suscettibilità”).

Così, non stento a credere che nell’epoca in cui si parla di Bryan Johnson, il milionario americano della new economy che per rimanere giovane ingurgita cento integratori al giorno e quasi nessun cibo naturale, ci sia un ostentato disinteresse nei confronti del vino, prodotto agricolo di origine antichissima e di sapore caratterizzante.

Vogliamo inconsciamente cancellare il nostro passato e ingannare la nostra biologia, esibire il più a lungo possibile addominali scolpiti e pelle liscia come quella dei bambini, esibire sui social week end nelle Spa e percorsi di meditazione in Thailandia per ritrovare noi stessi.

Sarà proprio la bevanda degli adulti a pagarne le spese: così intensa, carica di calorie, con quel retrogusto agreste che la dittatura della cultura neo urbana intende cancellare in favore di perfetti corpi da cyborg (però, come argutamente afferma Langone, è aumentato il consumo degli psicofarmaci, per la gioia delle case farmaceutiche). Matrix è già tra noi.

Probabilmente, i giovani resteranno per sempre giovani e continueranno a sorbire kombucha o, al massimo, a consumare le bevande che noi abbiamo abbandonato proprio a quell’età fatidica, i 24-25 anni: i Bacardi Breeze o loro equivalenti, i cocktail molto dolci, come il Mojito, la Caipirinha, il Mai Tai e le invenzioni dei cocktail bar contemporanei che dominano la scena con barman abbronzati, atteggiati e tatuati (nulla di più lontano dagli osti col grembiule raccontati da Gianni Brera), tutte a tendenza drammaticamente dolce.

Perché il dolce è ingannevole e apparentemente inoffensivo: è il gusto che piace ai bambini.

Questo excursus mi porterebbe a fare un ragionamento più generale.

L’altro ieri sono entrata in una tabaccheria per acquistare una marca da bollo e mi sono avveduta che ormai le sigarette finte –come le chiamo io- hanno raddoppiato la loro presenza.

Bene, benissimo, vittoria, era già da vent’anni che negli Usa si diceva che “ormai fumano solo le donne e i ne*i”, e ormai nemmeno più quelli, mi sembra.

Legioni di persone inalano compulsivamente quel vapore puzzolente alla paglia aromatizzata con gesto ipnotico, come fossero dei robot.

Non fumo sigarette e la considero una fortuna, di rado mi godo un buon sigaro con il ron. Tuttavia, c’è qualcosa di terribilmente stonato, antiestetico in questa  moda dell’E-cigarette che ben descrive Elena Stancanelli ne “Il tuffatore”, che vede Raul gardini come protagonista: “Eravamo coscienti di quanto facesse male fumare? Più o meno si… ma per questo fumavamo, perché faceva male. Era una sfida. Ragione per cui fumare era un gesto erotico. Fumavano i duri, i cattivi, le femmes fatales. Si fumava per stare dalla parte selvaggia della vita. Ora la maggior parte dei fumatori preferisce ciucciare vapore  da quelle macchinette elettroniche che ci hanno venduto spiegandoci che sarebbero state meno dannose..ma mettere in bocca un giocattolo, non è per niente sexy. E’ un gesto infantile, una caricatura del fumare è quello che fanno i bambini quando portano alle labbra una matita e poi soffiano l’aria. E’ innocuo, quindi non è eccitante”.

Fumare l’e-cigarette è da bambini.

Bere kombucha e cocktail dolci è da bambini.

Non esistono più i riti di passaggio.

Una volta i riti di passaggio consistevano nel fare pubblicamente quel che da bambini era pericoloso.

Oggi nessuno vuole mettere in dubbio che la salute è un bene primario, che il fumo faccia molto male e anche l’alcol oltre le modiche dosi di buon senso anche, ma veramente comportarsi come bambini, vivere per tutta la vita nella comfort-zone farà bene per davvero?

Io credo di no, credo che quest’ossessione per la salute nasconda il profondo desiderio di non invecchiare mai e di rimanere immobili.

Ma un frutto che viene conservato in frigorifero, dapprima perde le sue proprietà, apparentemente rimane intatto per settimane finchè salta la fase della maturità diventando marcio.

E’ questo ciò che vogliamo, evitando qualsiasi situazione di pericolo?

E il nostro cervello che dice? Avrà bisogno degli psicofarmaci al termine di questa fantastica permanenza nella zona di confort?

 

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