Costardi Bros, quando il viaggio è nel piatto
di Monica Caradonna
“Diversivo. Distrazione. Fantasia. Cambiamento di moda, di cibo, amore e paesaggio. Ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono”.
Anatomia dell’irrequietezza è uno dei libri che più mi hanno segnato e Bruce Chatwin e i suoi viaggi, reali e virtuali, mi hanno sempre ispirato e affascinato. Inconsapevolmente, o forse no, ritrovo lo stesso imprinting nell’esperienza che ho fatto con la cucina di Manuel e Cristian Costardi al bancone di Edit. Una serata che ho voluto e cercato. Una serata che per tanti motivi non potrò dimenticare. Mi hanno fatto emozionare parlando di amore, sorseggiando un gin tonic in un fine-sera-mai seduti come ragazzini sugli scalini del piazzale di Edit. Con una confidenza che si ha tra vecchi amici. Con una complicità scoppiata a suon di storie e sapori.
Nessun piatto è casuale. Ogni portata è un fotogramma di vita reale, il tesoro di un viaggio o un ricordo di bambino. Ogni morso è rivivere l’adrenalina del racconto: un’avventura o una memoria di famiglia, una sfida con se stesso o un limite da superare, come l’insofferenza per l’indivia che Manuel da ragazzino proprio non mangiava e che oggi è protagonista di uno dei suoi imperdibili dolci in carta.
Arrivando a Torino da Vercelli non potevano non rendere omaggio al vitello tonnato, ma ovviamente qui si apre il cassetto della memoria e magari le storie fatte a tavola quando i fratelli scartavano la carne per affogare nella salsa. Così nasce il loro vitello tonnato, con un importante lavoro sulla carne che diventa un filetto di vitello marinato all’aceto di Timorasso, bruciato prima di essere servito e accompagnato a una salsa tonnata, sicuramente alleggerita e, quasi per saldare un conto aperto con l’infanzia, molto cremosa. Sopra una polvere di capperi che aromatizza e conferisce personalità e dinamicità al piatto.
Quel sapore di Sicilia torna prepotente anche nel gambero di Mazara che diventa una piacevole e struggente Medeleine che profuma di peschereccio in mezzo al mare dove il gusto di una testa succhiata sotto il sole caldo di una terra bagnata dal Mediterraneo d’Africa ha il fascino del suadente e del proibito. Ricostruire quell’emozione a Torino, a pochi passi da Porta Susa, è impresa che la creatività dei Costardi riesce a stigmatizzare e a fermare in un fotogramma di piacere.
Hanno lavorato sulle teste, allora, per ricreare la salsa che è sul fondo del piatto e che accoglie nel suo ventre gustoso l’insalata fatta con le code, con la scorza d’arancia, sale e pepe e le codine fritte; dalla valigia della Sicilia anche il pistacchio leggermente tostato che, a occhi chiusi, catapulta nei vicoli dei paesini isolani dove in ogni casa c’è un braciere che brucia.
Giocano con la pasta, loro che a Vercelli son cresciuti con il riso e che lì nel loro ristorante presentano in diverse declinazioni. Prendono ispirazione dagli Yaki Udon, gli spaghetti di matrice orientale e ne fanno una linguina con le cozze assolutamente alternativa e gustosa, giocando con le temperature, con lo choc termico del freddo-caldo che mette in discussione il palato per poi lasciarlo con una piacevole sensazione vellutata e acida.
Lo spaghetto viene servito freddo da mantecare con l’aiuto di una pinzetta. Ad ogni boccone, un cicchetto di brodo caldo di vongole. Divertente. Buono. Fin dal primo assaggio viene stemperato lo scetticismo di una terrona nata in riva al mare come me. E non fa nulla se nel frattempo Manuel racconta che l’idea di quegli spaghetti è nata mangiando i lunghi vermi delle mangrovie al sapore di ostriche. Il gusto supera e abbatte il pregiudizio.
La libertà a tavola, per il cliente e per lo chef, risiede, a mio parere, in quella locuzione breve e determinata, che sottende fiducia e liberta, quel “fai tu” al momento della comanda che carica lo chef di una notevole responsabilità e riempie il cliente di curiosità e aspettativa.
È così che arrivano, ancora, a tavola il calamaro con piselli e menta su una salsa nera ottenuta dalle sacche del calamaro stesso e il risotto, intrinseco o inconsapevole omaggio alla Puglia, con un pomodoro dolcissimo che arriva da Lucera con un pesto di basilico e olio d’oliva.
Ennesimo viaggio nella memoria, quando a scuola dalle suore i fratelli erano costretti a mangiare un risotto al pomodoro acido. Bene, a distanza di anni si sono riconciliati – grazie alla Puglia ?, chissà – con l’oro rosso e lo hanno nobilitato servendolo nella lattina che è un richiamo alla Campbell’s Tomato Soup di Andy Warhol, ma solo dopo averlo cotto a fuoco lento per 6 ore con le verdure messe a crudo per sbattere la porta in faccia al soffritto che rischierebbe di coprire la delicatezza del bouquet di sapori.
Un buon pasto ripone molte sue speranze nell’apertura e nella chiusura. Se la cucina sbaglia il dolce è tutto l’equilibrio della cena che rischia il cortocircuito.
Ai dolci però qui c’è Manuel che mi dicevano essere una garanzia. Ho dovuto verificare. La sua insalata con crema di liquirizia, polvere di capperi e granita di mandorle rientra di diritto nei dolci che almeno una volta bisogna assaggiare, provando a non rimanerne sedotti. Quel contrasto tra dolce e salato immerso nel gioco delle consistenze e delle temperature. Un continuo bombardamento delle cellule del palato che lanciano messaggi contrastanti al cervello che, infine, codifica e prova piacere.
Ivoire, mela, finocchio e sedano per concludere, apparentemente, la cena. Freschezza e sapore; anche qui temperature e consistenze. Non un dolce banale, ma sempre una sfida a chi la spunta. Buono, fresco, piacevole, divertente e soprattutto con la capacità di pulire completamente il palato e ahimè prepararlo anche a ricominciare. Eh già, pronto per il colpo finale a suon di graffe con la crema e popcorn al caffè.
Quando per la prima volta qualche anno sono stata a Torino, affascinata dalla sua struggente bellezza mi son chiesta come mai avessi tardato a far visita a questa elegante signora. Mi son chiesta la stessa cosa dopo aver cenato alla tavola dei Costardi, dopo aver giocato con il loro menù declinato con carte da gioco tra l’alchemico e lo spirituale. Ci sono delle cucine che vanno provate. E ci sono dei viaggi che bisogna fare.