Il Conciato Romano: storia di una Terra e di una Famiglia
di Gemma Russo
Ha una forma compatta, di un bianco candido. Con un mestolo procede alla rottura della cagliata ma, poi, continua con le mani. I gesti sono naturali, fluenti.
“Dobbiamo ridurla in piccole dimensioni”, fa, “Come se fossero chicchi di mais. Ecco, alla mattina, mentre facciamo questo lavoro, siamo allietati dalla musica di radio Italia anni ’60, messa da papà. Se ci svegliamo storti, il formaggio viene male. Sapete quante volte è capitato?!”.
Siamo a Castel di Sasso, nell’alto casertano, e, nel laboratorio dell’agriturismo Le Campestre, con Manuel Lombardi, viviamo le fasi iniziali del processo produttivo del Conciato Romano, dal 2002 Presidio Slow Food.
La mungitura è fatta ancora a mano. In 8-10 minuti il latte ovino e vaccino arriva in laboratorio.
Temperatura del latte e tempestività di lavorazione sono fattori determinanti sia in estate, quando non è usata refrigerazione, che in inverno, quando ci si aiuta con la fiamma.
A circa 35°-36°C, s’aggiunge il caglio di capretto.
“Rotta la cagliata”, spiega Manuel, “gli diamo una forma. Nonna Maddalena, la mamma di papà, utilizzava le fuscelle di vimini. Oggi, nessuno le fa più. Era la famiglia di papà a fare il formaggio. Mamma Liliana era la nuora che, attentamente, osservava la suocera. Faceva il formaggio, utilizzando i metodi di nonna, quando eravamo in Belgio. Siamo ritornati a Castel di Sasso quando io avevo circa 6 anni”.
Allora, non era solo la famiglia Lombardi a fare per consuetudine questo formaggio, ma un intero territorio. In orci di terracotta, lo si conservava per il periodo estivo, quando non tutti avevano la mucca e il latte di pecora scarseggiava. Per chiudere gli orci, non si utilizzavano tappi in sughero o plastica come oggi, ma li si coprivano con piatti.
Così facendo, l’ambiente non era “completamente anaerobico. Si faceva anche il vermetto. All’epoca, tutti lo mangiavano scuro, ammuffito e pure con il vermetto. La nonna lo faceva in questo modo. Mamma inizia a dire che non andava bene”.
Determinata Liliana si mette in testa di creare qualche cosa che desse a lei la possibilità di realizzarsi come donna e ai suoi figli, Manuel e Fabio, di non dover lasciare l’alto casertano come avevano dovuto fare lei e il marito Francesco. Nel ’95, si iscrive ad un corso sugli agriturismi, dove fa assaggiare il formaggio ad un professore ONAF.
“Riconobbe qualche cosa”, racconta Manuel, “Venne a casa per incontrare nonna Maddalena. Parlarono a lungo. Diede una serie di suggerimenti. Mamma e nonna non sapevano che fatto con quegli accorgimenti si trattava del caso conciato o conciato romano”.
Liliana apre il proprio agriturismo con una regola ben precisa: quello che produco e preparo, quello mangi. Crea una selezione. Ha coraggio nel momento in cui c’era bisogno di fare cassa per coprire l’investimento iniziale.
Ostinata, a fine pasto, portava a tavola quel formaggio che “puzzava ed era bello forte, ma che nel frattempo si stava evolvendo”.
Agli inizi del 2000, l’incontro con Slow Food e la storia del “presidio fantasma. Sì, perché alcune persone acquistavano da noi il formaggio, spacciandolo per proprio. Ma, l’impossibilità di soddisfare un ordine grosso fece uscire tutto allo scoperto. Il formaggio non era riproducibile. Il segreto era ed è in quelle montagne che danno pascolo alle pecore e nella manualità di mamma. In una notte, salvammo il presidio. La prima manifestazione a cui partecipammo fu a Piazza del Plebiscito. Ci andarono mamma e Fabio. Tornarono emozionati. Il loro prodotto era stato apprezzato. Dico il loro prodotto perché io allora facevo altro”.
Iniziano ad arrivare richieste. Ѐ Fabio a portare in giro il Conciato Romano, frutto del lavoro di mamma Liliana, appreso da nonna Maddalena, e a divenire volto della famiglia Lombardi, in un momento non proprio bello per questa, a causa della malattia di papà Francesco.
“Fabio”, spiega Manuel, “aveva trovato nell’agriturismo e nel formaggio la propria strada. Io invece gestivo un negozio d’informatica a Caiazzo, dove avevo trovato anche l’amore. Allora, Eulalia era aiuto cuoca all’agriturismo nei fine settimana. Aiutavamo, ma non eravamo coinvolti”.
Intanto, continuiamo a fare il formaggio. Il siero di scarto sarà dato ai maialini neri, razza casertana, allevati in azienda. La produzione del formaggio avviene tutti i giorni; quella del Conciato solo quando è a disposizione una percentuale più alta di latte di pecora. Da febbraio a maggio è massima. In questo periodo, il sapore del latte di pecora s’arricchisce del pascolo di primavera.
Con lo scolapasta Manuel raccoglie la pasta, facendole perdere il siero. La pone nelle fuscelle, aiutandosi con i pollici e il palmo della mano. Le mette a riposo. Continuano a perdere siero. Poi, liberate dalle fuscelle, lancia le forme una ad una. Il lancio compatta la pasta, eliminando gli ultimi residui di siero. Salate ai tre lati, vengono fatte riposare in frigo per 24 ore.
Salate sul lato mancante, si porranno nei casali in faggio dove, grazie al vento e alle temperature esterne, s’asciugheranno. Quando la scorza sarà dura, verranno “lavate” con l’acqua di scolo della pasta fatta a mano, utilizzata per i primi piatti dell’agriturismo. Su panni di tela, saranno messe ad asciugare, pronte alla concia, che avverrà in damigiane di vetro o in anfore di terracotta, a seconda del tipo di domanda che andranno a soddisfare.
“Peperoncino, timo serpillo della vallata, lo stesso brucato dagli animali, il nostro olio e il nostro vino, ricavato dal vitigno Casavecchia”, ascoltiamo assolti, “Ecco, sul vino c’è la mano di Fabio. Nonna e mamma usavano l’aceto. Fabio, di nascosto, lo prova a conciare con il vino. Dopo sei mesi, lo fa assaggiare a mamma e piace molto. Dà eleganza al prodotto ma soprattutto racconta due storie di una stessa terra”.
Sull’anfora dimostrativa, pone il tappo e inizia a fare movimenti rotatori precisi per 10-15 secondi, in modo che il liquido di concia possa ungere progressivamente tutte le forme.
Ogni 15 giorni, ripete il movimento.
Mentre continuiamo la chiacchierata, visitiamo l’azienda e gustiamo a tavola con loro le prelibatezze preparate da Eulalia.
Ѐ stata proprio lei, dopo l’incidente avvenuto a Fabio nel 2007, a non permettere che il germoglio del seme sparso su questo incantevole e silenzioso pezzo di terra fosse reciso da quell’infausto “vento”.
Scelse di raccoglierlo e custodirlo, in quell’attimo di dolore, tra le proprie mani.
“Facevo altro, facevamo altro io e Manuel”, racconta Eulalia, “ma quando ci chiedemmo con i miei suoceri se continuare il lavoro di Fabio, io d’istinto dissi che c’ero. Avevo scelto. Manuel continuò ad avere il negozio a Caiazzo. Non gli dissi nulla. Doveva capirlo da solo”.
Le sue parole sono carezzevoli ma determinate. La sua mano non è diversa. La conosco. Spesso la leggo.
Ѐ per questo che alla sua mano affido la fine di questa storia.
Alla mia mano affidi la fine di questa storia?!
…e da dove comincio?
Comincio dalla parola “fine”!
La fine è un inizio sempre!
…e la fine di questa storia non c’è! Perché non è una storia!
Perché il Conciato Romano è storia!
La storia non solo della famiglia Lombardi, ma della memoria di tutti che è trascorsa, dei gesti di generazioni che hanno abitato queste terre e che con lo stesso rispetto per la terra, hanno nutrito saperi con un gusto antico.
Non c’è fine per questo!
Non c’è fine per le tradizioni!
Le radici nutrono i nostri passi…
e la nostra strada lastricata di massi e sudore, tra salite e discese, sarà sempre qui ad insegnarci il futuro e attraverso il passato, su di essa, costruiamo il presente.
Per questo, non ho una “fine” per questa storia, ma solo un nuovo inizio per ogni nuovo giorno.
Un abbraccio Eulalia.
Foto di Marina Sgamato