Come è cambiato il mestiere di chi vende il vino? Sentiamo Valerio Amendola che lo fa da 30 anni ed è figlio d’arte


Valerio Massimo Amendola

di Alberto Nigro

«La distribuzione del vino è cambiata molto negli anni: oggi si preferisce la qualità alla quantità. Il futuro di noi agenti di commercio? Se non investiamo sulla formazione saremo sostituiti da internet». Valerio Massimo Amendola si occupa di distribuzione di vini e prodotti alimentari di alta fascia nella provincia di Salerno dal 1995 e il suo nome, anche grazie al lavoro svolto già a partire dal 1971 dal padre, Livio, è sinonimo di professionalità.

Amendola, al di là del lavoro, è nota la sua passione per il vino. Com’è nata?
«Grazie a mio padre che fin da bambino mi ha portato in giro con lui. Ha rappresentato per 40 anni, tra le altre, l’azienda Mastroberardino e ricordo con grande piacere le vacanze con la famiglia del Professore e le lunghe giornate trascorse a giocare in cantina, tra le botti. Insomma, sono nato nel vino e crescendo ho sviluppato un interesse enorme per questo settore. Oggi posso dire di avere tre passioni: il vino, la palestra e la Juve».

Ritiene che sia cambiato il mondo della distribuzione in questi decenni?
«Credo che a cambiare sia stato soprattutto l’approccio della clientela. Oggi chi compra è molto esigente e preparato, punta alla qualità e preferisce fare piccoli ordini e continui. Ricordo nel passato promozioni che si basavano anche su 200 o 300 cartoni di acquisto, oggi al massimo arrivano a 30 o 40».

Come mai?
«Penso che i fattori principali siano due: innanzitutto è aumentata la qualità media dei prodotti, le aziende che lavorano “borderline” sono quasi scomparse e trovare vini pessimi è diventato complicato; in secondo luogo, i social e i programmi televisivi dedicati al food e al beverage hanno creato interesse nei confronti dei prodotti di qualità. Sembrerà strano, ma grazie a trasmissioni come Masterchef tantissime persone si sono avvicinate a questo mondo. Certo, poi sono arrivate anche le degenerazioni, ma l’impatto iniziale è stato estremamente positivo».

Lei gira molto in Italia e all’estero. Come sono percepiti i vini campani?
«Fino ai primi anni 2000 si registrava un grande fermento, tant’è che un’agenzia che non proponeva almeno un vino campano era guardata con diffidenza. Si faceva un buon lavoro e il fatto che negli anni ’80 ai vertici dello Stato ci fossero politici campani, e soprattutto irpini, ha certamente aiutato. Poi c’è stata una involuzione, tant’è che molti colleghi oggi mi dicono che la richiesta è diminuita molto».

Perché?
«Credo per colpa di noi campani. Purtroppo, invece di fare gruppo in questi anni abbiamo pensato a farci la guerra. Troppe aziende sembrano più interessate a parlare male delle altre, magari di quelle storiche, che a promuovere il territorio, a differenza di quanto accade in Friuli, in Trentino o anche in Sicilia, e questo lo stiamo scontando».

Come se ne esce?
«Capendo che non c’è futuro senza passato e che le aziende storiche del territorio non vanno combattute ma ringraziate per il lavoro che hanno svolto quando non c’era nessuno a farlo».

Tornando alla sua attività, come vede il futuro?
«È un futuro molto incerto. C’è bisogno di investire su sé stessi, di stappare bottiglie, di frequentare grandi ristoranti, di viaggiare e visitare realtà. Tutto questo ha un costo elevato, ma in mancanza di una formazione continua saremo presto superati dalle vendite online. Non basta andare in giro e ripetere a memoria le schede tecniche dei vini, bisogna diventare dei veri e propri consulenti, descrivendo in maniera adeguata i prodotti e toccando le corde giuste per incentivare l’acquisto».

Ha un vino del cuore?
«Ne ho molti, ma mi limiterò a dire Sassicaia e Montepulciano di Valentini per i rossi»

E per i bianchi?
«Dobbiamo spostarci in Borgogna, ma sono troppi per elencarli».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.