Colli di Luni Vermentino. C’era una volta il tempo delle mele
di Fabrizio Scarpato
Prologo
“Mi chiamo LeBron James. Sono nato a Akron, Ohio e ho vissuto nel ghetto. Ogni sera guardo la maglia numero sei che porta il mio nome, e sento di aver ricevuto un dono, una benedizione. Perché altrimenti non sarei qui. Ora, cosa volete che mi importi se qualcuno parla male di me?”. In fondo il ragionamento non fa una piega. Se poi sei stato anche Mvp delle finali Nba, anche quel minimo di sfrontatezza si trasforma in candido orgoglio e inoppugnabile sincerità.
Atto Primo, esterno giorno
E’ uscito il sole e la piana del Magra appare nitida, limpida, in alta definizione. Ce ne sarebbe abbastanza per godersi la discesa in scooter da Castelnuovo Magra verso la città, attraversando buona parte degli areali che caratterizzano i Colli di Luni, collocando anche visivamente ciò che venticinque Vermentino dell’anno zerododici hanno appena raccontato di sé, con consueta finezza, ma anche con un filo di diffusa timidezza. Sarà per questo che pur passando tra vigneti e ulivi sbrilluccicanti, mi fa compagnia l’idea di una mela. La mela tentatrice del peccato originale, quella rivelatrice di Newton, quella bella e tecnologica con un morso di lato, quella tagliata a metà, sempreverde come i Beatles, quella d’oro per la donna più bella. Ma anche la mela del Vermentino.
E’ molto buono il profumo di mela, fresco, acidulo, pimpante: laggiù dall’altra parte della valle, nella zona di Arcola, si mescola facilmente con altra frutta; lassù sulla mia destra, in quel lembo di Toscana che scende da Fosdinovo, l’altitudine ne affina i sentori confondendoli con eleganti note floreali; alle mie spalle, sulle colline intorno a Ortonovo esposte al vento del mare, la mela si accende dei profumi silvestri della macchia mediterranea. Sempre con soddisfazione, tanto da paventare una mela avvelenata e incantatrice, offerta da una strega matrigna perché il Vermentino si addormenti ignaro, assuefatto, magari sotto l’influsso di qualche pozione a base di foglia di peperone e vegetali assortiti. Solo l’apporto della mineralità consente la rottura dell’eventuale incantesimo, con un sorso che si fa sveglio e dritto di salinità, come nelle Pianacce di Giacomelli, venato d’agrumi, o nei fiori freschi e ventosi del Fosso di Corsano del Podere Terenzuola, e soprattutto nei due vini di Lambruschi, Costa Marina, ampio e resinoso, e Il Maggiore, macchiato di anice e pietra focaia, lunghissimo. Ma è all’altezza di Sarzana che cerco con lo sguardo le colline più lontane, per via di un ultimo frettoloso assaggio, diverso per morbidezza e complessità, eppure di bellissima beva.
Atto secondo, interno notte
Trentatre Vermentino, travasati in anonime bottiglie numerate, tutte uguali. Si fa per dire, perché così al buio emergono profili femminei di cipria, mascoline salinità, indubitabili finezze e qualche passo falso: solo occasionalmente si sfiora la bellezza. E sono conferme, comprese le scintille del Vermentino del Monticello, coi suoi agrumi dolci venati di verde canforato, e del Sarticola della Baia del Sole di Federici, equilibrato e fresco di macchia, vivace. In particolare emergono ancora i vini e il viso adunco e nodoso di Ottaviano Lambruschi, tanto da farmi pensare con sommesso e rispettoso entusiasmo a un coinvolgimento di quel viso, di quelle rughe, di quelle mani sapienti, nella comunicazione della storia e dell’immagine dei Colli di Luni.
Il numero ventinove, invece, ha qualche striatura di vaniglia, subito ridimensionata da una spinta salata, quasi idrocarburica: spiegano che il vino è fuori disciplinare, scartato per una sfumatura d’acido non prevista tra le cinquanta ammesse dalla denominazione. Inevitabile domandarsi non tanto della miopia, ché il mio giudizio conta poco, quanto della accuratezza del disciplinare rispetto al gusto, al cambiamento, alla curiosità che porta taluni produttori a confrontarsi con gli altri e soprattutto con se stessi, nobilitando la storia attraverso la tecnica. Perché non si fa vino solo con la storia e tantomeno solo con la tecnica: nel primo caso si sentirebbe odore di chiuso, nel secondo il gelo onanistico della tecnologia.
Porre limiti estetici quando l’etica del fare vino è assolutamente rispettata, usare vaghi cromatismi e banali note gusto-olfattive per soddisfare la propria ansia di controllo, è quasi come sistemare la mela sulla testa del proprio figlio: un rischio, anche perché non è affatto detto che oggi si possa fare affidamento su un nuovo Guglielmo Tell. Senza contare che poi quel figlio ti manda a quel paese, per non tornare mai più.
Atto terzo, lentamente
Tredici batterie, sessantuno vini. La settima e l’ottava mettono insieme alcuni Colli di Luni e certi bianchi originali, inconsueti, splendidamente definiti Superligurians. Bella selezione, alta. Esce bene, per spinta sapida in una profondità da sherry, Le Origini, un azzardo de La Felce; esce benissimo la mela golden, infiltrata di gocce di miele, venata di pompelmo e viva di rocciosità, di quel vino che ormai ho imparato a conoscere, così complesso, sfaccettato e intrigante da continuare a sorprendere. Sull’etichetta c’è scritto Igt Liguria di Levante: scelta obbligata per il produttore, ma temo un errore di prospettiva di chi decide, un vuoto di coraggio, una sconfessione di territorialità, quantomeno un’occasione mancata per capire cosa ci può essere oltre il tempo delle mele.
Epilogo
Mi chiamo Il Bocciato. Sono un Vermentino, nato nel vigneto di Poggio Paterno, cresciuto e curato dai fratelli Neri, dell’azienda Il Monticello. Ogni volta che mi versano nel bicchiere, avverto il privilegio di poter raccontare una storia. Una specie di dono. Altrimenti oggi non sarei qui. Ora, cosa volete che mi importi se qualcuno parla male di me?
Enoteca Regionale della Liguria – Castelnuovo Magra
Benvenuto Vermentino 2013
- Tasting Colli di Luni Vermentino 2012
- Serata Vermentino 2012, insieme ai produttori