Coda di Volpe di Terredora
Strano destino, questo del Coda di Volpe: è un vino tipicamente campano ma, un po’ come accade con la genovese, nessuno lo conosce fuori dalla regione. Eppure è difficile trovare un bianco così buono a prezzi così convenienti, capace di adattarsi a gran parte della cucina marinara e vegetariana. Ottima scelta, dunque, quella dell’Enohobby Club Napoli presieduto da Lia Ferretti, di metterlo a concorso nella versione igt assieme all’Aglianico e al Pallagrello Bianco. Una degustazione coperta, presieduta dal direttore dell’Ersac Raffaele Beato, che, come sempre accade in queste circostanze, risponde alla onesta verità papillosa di chi ha fatto parte della commissione. Ed ecco allora i vincitori: per il rosso si sono classificati nell’ordine Ruggieri, Caputo e Lonardo. Per il Pallagrello bianco Terre del Principe, Selvanova e Piccirillo mentre per il Coda di Volpe Terredora, Castel dei Franci e Le Contrade. L’azienda di Walter Mastroberardino e dei figli Paolo, Lucio e Daniela, conferma così ancora una volta la sua grande vocazione al bianco. Abbiamo di recente stappato un Fiano CampoRe del 2001 sulla minestra di totanetti e spollichini preparata da Rocco Iannone nel suo Pappacarbone a Cava de’ Tirreni con grande soddisfazione: legno e frutto si erano ben integrati grazie alla freschezza mentre l’evoluzione in vetro aveva svelato complessità olfattiva sostenuta da intensità e persistenza sia al naso che in bocca. L’acidità, ci insegnano i francesi, è la caratteristica essenziale per un grande vino mentre la morbidezza dovrebbe essere un risultato raggiunto solo dopo anni e anni di affinamento, non certo con la semplice piallatura legnosa di stile australiano a cui abbiano assistito negli ultimi anni. Proprio la scarsa acidità è sempre stato il problema principe dell’uva coda di volpe, usata per questo in Irpinia per tagliare Fiano e Greco e sul Vesuvio per compensare l’esuberante falanghina. Dall’inizio degli anni ’90, grazie a tecniche di coltivazione e vinificazione più aggiornate, finalmente possiamo goderci questo vitigno in purezza, capace di una sua longevità come mi ha dimostrato un Coda di Mimmo Ocone del 2001. Come questo 2004 pensato da Lucio, davvero una bella annata per i bianchi sanniti e irpini: lo berremo allora, perchè no, su una pasta con la genovese di tonno del Convento di Cetara, oppure su una provola affumicata. Non è difficile prevedere longevità a al bianco ormai collaudato da più di dieci vendemmie nella splendida azienda di Montefusco. Con questi vini, la Campania ha ancora un lungo futuro da raccontare.