Catania enoica – Due chiacchiere e un calice con Antonio Lombardo, l’oste del Vermut
di Francesco Raguni
La città di Catania – grazie anche all’ascesa dell’Etna come terroir d’elezione nel mondo del vino – sta diventando un luogo dove i ritrovi per gli appassionati in materia aumentano sensibilmente. C’è più sensibilizzazione e cultura in materia, e così – in alcuni locali – non si chiede più un semplice calice di rosso o bianco che sia, ma si ricerca un determinato vitigno o produttore, segno che ciò che beviamo ci racconta e ci lascia qualcosa che, a sua volta, inevitabilmente, proveremo a ricercare altrove, laddove questi abbia effettivamente conquistato il nostro cuore.
I risultati in questione non sono fiori spontanei che sono cresciuti improvvisamente ai bordi delle strade, ma sono i semi germogliati di persone, operatrici del settore, che lavorano quotidianamente col vino e che trasmettono le loro passioni ai propri clienti. È qui che probabilmente si può declinare il concetto di “oste”, parola il cui significato può essere agganciato alla figura del “sommelier”, ma che – in un qualche modo – si differenzia, perché richiama un antico modo di intendere il servizio, meno formale e certamente più conviviale.
La storia di Antonio
Uno di questi è Antonio Lombardo, oste (e sommelier) che lavora presso il “Vermut” (Salumeria, vineria, vermouth bar) in via Gemmellaro n. 39, Catania. Il locale in questione ormai da tempo è punto di riferimento della movida catanese, sia per la selezione di salumi, formaggi e sottoli (e non solo) che offre, ma anche per la parte dedicata al vino, che Antonio cura quotidianamente. Dalla mescita alla singola bottiglia, nulla è lasciato al caso. Abbiamo così scelto di fare quattro chiacchiere con lui, partendo dall’amore che tutto muove.
“La mia passione per il vino l’ho scoperta quasi per caso. Ero in un momento molto delicato e difficile della mia vita, i miei studi mi avevano portato ad un vicolo cieco e il mestiere che mi ritrovavo tra le mani dopo anni di esperienza pure. Mi sentivo perso. Quando ho iniziato a lavorare al Vermut ho fatto la scommessa di provare a fare questo mestiere senza risparmiare energie e tempo” ci racconta, facendo riferimento ai suoi studi universitari presso la facoltà di Scienze Politiche di Catania. “Il vino è strettamente alla storia, che sia umana o geografica, così ho capito che potevo usare i miei studi in questo settore, prima sui vermouth e poi sul vino. Il vino riusciva a dare senso a tutti i miei sforzi passati”.
Nel suo lavoro, comunque, Antonio ha anche dei modelli, figure di riferimento che lo guidano tra un calice da cambiare e una bottiglia da sistemare. “Nei momenti difficili sono due le persone a cui mi ispiro: Salvo Foti e Salvatore Modica. Entrambi in modo diverso sono grandi esempi di tenacia. Meriterebbero molta più considerazione soprattutto in Sicilia dove si tende spesso ad ammirare qualcosa o qualcuno che arriva da fuori, ignorando il vero valore di chi certe cose le pratica da molti anni”. E in due nomi simili è facile ripercorre la storia del vino sull’Etna, passando da Randazzo a Milo, dove il Carricante sta divenendo sempre più vitigno d’elezione e dove sta raggiungendo picchi di qualità e resistenza nel tempo, così come accade nel Palmento Caselle, bianco che racconta l’Etna in tutte le sue sfumature: da quella minerale a quella citrica.
Ma il mondo del vino è in continua evoluzione: “Oggi vedo molta più apertura e curiosità, ma il mondo del vino attuale resta ancora ostaggio della mediocrità e dell’improvvisazione. La maggior parte dei ristoratori non hanno idea dell’importanza che ha il vino in un contesto gastronomico. Le distribuzioni e gli agenti non sono in alcuni casi interessati, spesso non sono in grado di sviluppare un lavoro di costruzione. Per non parlare della carenza di figure competenti, con passione, curiosità e spazio d’azione. Il vino resta un prodotto per molti che si debba vendere da solo”. Eppure, Antonio non vede un futuro totalmente nero. “Nonostante questo resto ottimista perché il vino, più velocemente di quanto si possa pensare, sta conquistando uno spazio sempre maggiore e importante”.
Carta dei vini, vini naturali e lavoro di gruppo
Sorge poi spontanea una domanda, ricorrente in queste occasioni, ma da cui difficilmente si può prescindere, quella che riguarda la carta dei vini. Ogni locale ha la propria, spesso si tratta di una preziosa guida all’interno della cantina del luogo, ma ogni guida che si rispetti ha dietro la mano di un abile esploratore. “Potrei scrivere un libro sulla questione carta vini! Credo che il tempo delle bibbie sia finito, anche se la potenza e la bellezza di una carta ben fatta non tramonterà mai. Nel mio caso, ho realizzato una carta di circa 60 vini che modifico più o meno ogni dieci giorni. Una scelta del genere dipende fortemente dall’assenza di spazi per stoccare le bottiglie. In questo momento sto lavorando ad un menù più solido accompagnato da un’altra versione molto più piccola (circa 30 vini ndr) così da poter permettere diverse tipologie di esperienze”.
Il Vermut – nell’immaginario collettivo – è associato spesso ai vini naturali. Ma è davvero questa la filosofia di Antonio? “La mia filosofia vino è in continua evoluzione e voglio pensare che questo rappresenti una crescita personale mia e del posto in cui la applico” spiega. “Preferisco i vini realizzati con fermentazione spontanea perché li reputo più emozionanti e, in molti casi, più rappresentativi dei vini così detti convenzionali. Non demonizzo questi ultimi, ma reputo il vino un prodotto derivato dall’agricoltura e quindi mi concentro sui vini che vengono pensati come prodotti agricoli, in sintonia con l’ambiente circostante, nel pieno rispetto di chi li fa e del territorio in cui vengono prodotti”.
Resta da dare un ultimo sguardo, tornando al punto di partenza di questa storia: la Sicilia enoica. “Secondo me ci troviamo in una posizione molto delicata. Da un punto di vista produttivo, la qualità del vino credo che sia migliorata rispetto a dieci anni fa, anche se la priorità è oggi quella di vendere e il risultato sono vini di pronta beva, meno longevi forse e meno emozionanti. La Sicilia enoica ha fretta e questo non è per niente un bene. In molti hanno improvvisato aziende senza porre basi solide, i prezzi sono diventati folli e il tutto sta diventando insostenibile. Bere Sicilia sta diventando sempre più difficile”.
E così il vino rischia di tornare ad essere un prodotto per pochi, tradendo le sue primigenie ed originarie radici. “Tutto questo non può essere scaricato sugli addetti ai lavori, gli osti in primis, che quotidianamente stanno invece realizzando un lavoro di avvicinamento al vino incredibile in molti casi in totale solitudine. Solo valorizzando il nostro patrimonio – vitivinicolo, geografico, storico e umano – potremmo cambiare rotta” avverte Antonio. “Dovremmo imparare maggiormente il lavoro di squadra, valorizzando il vicino più bravo invece di sabotarlo o isolarlo, restando vicini l’uno all’altro, restando umani”.