Capodanno, questione di lenticchie: Valle Agricola
Comunità del cibo del Matese, la grande operazione culturale e colturale di Slow Food
I legumi sono al giorno d’oggi al centro di una nouvelle vogue che li vuole in tavola abbinati al pesce e ai frutti del mare. Non c’è baccalà che non abbia fatto amicizia con una passatina di ceci, o fagiolo bianco che non sia finito incastrato in qualche valva di vongola. Fino a qualche anno fa li si poteva concepire solo con i prodotti della terra o con la pasta.
Penso alla Minestra maritata, alla Zucca e fagioli alla procidana, o al classico Lenticchie e zampone (o cotechino), che la fa da padrone l’ultimo dell’anno. Insomma, con i legumi: verdura o carne. Non molto di più. Il lasciapassare per il mare è stato concesso ai legumi quando si sono superati i cannellini e i borlotti, o le comuni lenticchie, a favore di legumi con qualità organolettiche particolari: più delicati, con una pelle più sottile e anche, quindi, veloci da cucinare.
E alcuni chef alla ricerca di quella materia prima che dà la svolta al piatto, hanno contribuito a tributarne il successo. Non si tratta di legumi Ogm, ritrovato di laboratorio di qualche studioso distoltosi dalla ricerca sulla Dolly di turno, ma dei legumi di sempre. Quelli storici. Dimenticati. In questi anni non solo in Campania se ne sono riscoperti, poco a poco, una gran varietà. Sono prodotti negletti tra negletti, a lungo quasi odiati perché associati a quella fase buia della nostra storia recente nella quale rappresentavano l’unica fonte di proteine.
La carne dei poveri. Uno a uno, così, sono usciti dall’oblio, il cece di Cicerale, il Fagiolo di Controne, il Fagiolo Zampognaro di Ischia, il Fagiolo a Formella (acerano- nolano), la Cicerchia Flegrea e ad una serie di altri come i fagioli dell’occhio (Valle del Sele e Alburni, in provincia di Salerno, e alcune zone dell’Avellinese), i fagioli di Volturara Irpina, i fagioli quarantini e i tabacchini (provincia di Avellino), i fagioli lardari (Agerola e dintorni), il fagiolo di Villaricca (nell’omonimo agro e nel giuglianese, in provincia di Napoli), la fava di Miliscola e i piselli cornetti (provincia di Napoli), il fagiolo striato e il fagiolo tondino bianco del Vallo di Diano (Salerno), il lupino gigante di Vairano (alcuni comuni dell’alto casertano).
La Lenticchia di Valle Agricola
Della Lenticchia di Valle Agricola si sente per lo più parlare una volta l’anno di questi tempi, quando, con l’avvicinarsi dell’ultimo dell’anno, le agenzie e i telegiornali sparano nell’etere il classico servizio delle feste nel quale si parla delle quotazioni dei prodotti per il cenone. Solo allora, questa lenticchia dimenticata, finisce tra quelle più rare e pregiate per effetto di una sorta di “gastrosensazionalismo”che ricorre a titoli di assai dubbia pregnanza come “A Capodanno è caccia alla lenticchia griffata” .
Coltivata e lavorata nella fascia pedemontana del Massiccio del Matese, invero, la Lenticchia di Valle Agricola rientra da alcuni anni nella mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali del Se-Sirca regionale che la descrive di medie dimensioni, di colore piuttosto scuro, dalla buccia (tegumento) sottile, di facile cottura, con sapore caratteristico e intenso e caratteristiche organolettiche di pregio. Io ne ho fatto la conoscenza durante il suo debutto in società, avvenuto all’interno del mercatino di Terra Madre nei giorni di Terra Felix, accanto al Fagiolo cerato di Alife, lucido e dal color fango.
Seminate a novembre insieme al grano, e raccolte a luglio, le Lenticchie crescono su piante alte circa 40 centimetri (due, i semi per baccello) senza alcun ricorso a irrigazione, concimi e antiparassitari. Una volta tagliate, le piante sono messe a essiccare in pieno sole per una settimana, battute a mano con un bastone di legno per liberare dal baccello i semi che vengono puliti e lavati e ancora essiccati per due o tre giorni per poi essere conservati in contenitori di vetro o bottiglie di plastica.
La ricetta tradizionale le vede semplicemente preparate a zuppa con le patate, mi raccontano il sindaco di Valle Agricola Fernando Pezza e il signor Armando D’Amico, uno dei rappresentanti delle 30 famiglie che ne producono poco più di tre chili ciascuna. Dopo la chiacchierata con loro, mi è sembrato chiaro che l’idea che il prezzo di questa varietà anche quest’anno possa ascendere in maniera esponenziale nella gara al far da complemento allo zampone, è assolutamente da scartare: è prodotta in piccolissimi appezzamenti secondo metodi incantevolmente arcaici ed è rigorosamente destinata al consumo delle famiglie che la coltivano. Insomma: al momento non ha prezzo perché, semplicemente, non è in vendita.
Ma potrebbe esserlo, in un futuro assai prossimo, se l’iniziativa di Slow Food di qualche settimana fa di presentare alla Mostra d’Oltremare la Comunità del Cibo di Valle Agricola, germoglierà dando vita a una piccola economia che ruoti intorno a questo legume, offrendo, in nome di una tradizione comunque arrivata intatta fino ai giorni nostri, un reddito addizionale alle famiglie da essa interessate.
Riferimenti e notizie
Esposito Rosamaria
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