Bonilli, l’anniversario della morte e la presunta crisi del fine dining


Stefano Bonilli

Bonilli è morto, viva Bonilli

Avendo ormai quasi l’età in cui Stefano Bonilli ci ha lasciato, vado indietro con i ricordi e dopo aver letto tutti (spero) gli scritti di chi lo ha conosciuto o di chi ci ha lavorato, mi vengono in mente alcune considerazioni.
Preparatevi perché spenderò un po’ della mia laurea in filosofia senza però infarcire il post di citazioni visto che viviamo un’epoca in cui un conduttore di prim’ordine come Parenzo confessa candidamente di non sapere nulla della questione del popolo Saharawi al centro di grandi mobilitazioni massa negli anni scorsi.
La prima è la naturale idealizzazione del passato rispetto alle difficoltà del presente e alle ansie del futuro. In fondo, il passato per noi è uno scampato pericolo perché siamo ancora qui a parlarne e dunque è facile idealizzarlo o viverlo con nostalgia. A ben pensarci la lotta politica dagli scontri tribali al controllo delle società complesse odierne è sempre stato questo: la destra, i conservatori, che spingono per non cambiare niente e la sinistra che ambisce a governare il futuro. Il pastore che consuma il suolo finchè possibile e l’agricoltore che mette il seme sapendo che darà la pianta, la forza contro la cultura, l’iperpraticismo e l’utopia di un mondo migliore, l’antiscienza e il fondamentalismo religioso contro la ricerca.
Stefano Bonilli era sempre teso verso il futuro pur vivendo la condizione di poter godere da dominus il presente. Aveva fatto l’esame di giornalista professionista in un capannone in cui rimbalzavano assordanti i ticchettii delle macchine da scrivere (come me del resto) e fu tra i primi a creare il blog Papero Giallo nel 2004. Il suo grande merito è stata dunque una inesauribile curiosità che è l’essenza di un lavoro giornalistico che non deve insegnare niente a nessuno, ma solo raccontare, raccontare e ancora raccontare. Dalla nascita del Gambero Rosso nell’ora più buia (cit) , quella della crisi del metanolo, alla guida dei vini con Cernilli e Petrini e poi dei ristoranti, poi la Città del Gusto, quasi una Città del Sole di Campanella (questa cit. fatemela passare), sino al forum del Gambero Rosso e a Papero Giallo in cui l’ipse dixit si metteva in discussione con i suoi lettori e i suoi detrattori. Non è stato ecumenico, è stato molto divisivo, a volte ingiusto,  e ha fatto diversi errori ovviamente, primo fra tutti illudersi che la legge bocconiana del profitto nella gestione delle società (quella che considera già  crisi aver guadagnato meno dell’anno precedente) fosse più debole della cultura sociale di una impresa alla Adriano Olivetti. E, come tutti noi, ha sbagliato valutazione sulle persone oltre che sulle cose. Ma resta il dato della curiosità che lo ha reso grande e che lo distingue da ogni altro della sua generazione che ha fatto il suo lavoro.
Lo era sul piano pratico: quando attraverso Maurizio Cortese, conobbe la Penisola Sorrentina e la pizza di Gino Sorbillo, gli si aprì un mondo e fu in quest’ultimo scorcio della sua vita che ebbi l’occasione di conoscerlo e di frequentarlo, ma questo non frega nulla a nessuno di voi per cui non vi romperò con i ricordi e le risate. Vi dico solo che avevo la precisa sensazione di avere a che fare con un uomo di intelligenza superiore.

Non è morta la cucina d’autore, è in crisi la stupidità di autore

Questa curiosità di Bonilli è quello che manca all’Italia in questo momento. E qui mi riallaccio all’altro tormentone del piccolo circolo enogastronomico italiano, ossia la presunta crisi del fine dining, letteralmente, della cucina raffinata.
In realtà, come dimostrano anche tanti locali pieni, l’alta cucina ben eseguita non è affatto in crisi, non c’è un ritorno all’età della pietra in cui le ossa di pecora bollivano per ore nel pentolone dei pastori. E’ in crisi la narrazione costruita nel corso degli anni ed è anche normale che sia così perchè siamo alle prese con tre fattori di profondo cambiamento della società e dell’approccio al cibo che tanti espertoni fanno finta di non vedere.
Il primo è la fretta, il mito della velocità in cui siamo immersi che non può tollerare, salvo in alcuni rarissimi e speciali casi, stare a tavola ore ed ore. Io stesso che lo faccio per lavoro tendo a rimandare se non proprio a rinviare, quegli appuntamenti infiniti in cui per capire tutto mi basterebbe provare due piatti invece di sottoporsi all’aperitivo, all’amuse bouche pensato per i catering e divenuto obbligatorio, antipasto freddo, antipasto caldo, primo, secondo primo, secondo di pesce e secondo di carne, predessert, dessert e piccola pasticceria che fanno da lanciarazzi al picco gliecmico. In Italia non si è riusciti a trovare una formula per far assaggiare velocemente tanti piattini come invece fanno gli spagnoli.
Questo è il motivo per cui volano i locali monoprodotto: pizzerie, paninoteche, hamburgherie, bracerie, le formule crudo e piatto di pasta, etc.
Il secondo aspetto è il tema della salute che non è affatto secondario, coniugato alle paranoie moderne di ispirazione anglosassone. Il 46 per cento degli italiani è alle prese con problemi di sovrappeso e ormai la gente comune si siede a tavola con l’idea di difendersi dal cibo. L’incapacità da parte della maggioranza dei cuochi di capire questo cambiamento (eppure basterebbe scrollare un po’ sui social per veder che i dietisti e i nutrizionisti sono più famosi di loro) è uno degli elementi di questo rigetto.
La terza considerazione è economica. Per quanto buono possa essere un pasto, per la maggior parte delle persone è follia andare oltre i 50 euro, altospendenti compresi, e se si superano i cento, fateci caso, è solo quando si mangia mare. Il potere di acquisto delle persone è in diminuzione e affidarsi alla clientela straniera in tempi di guerre e pandemie si rivela un grave errore strategico perché qualsiasi legge politica di posizionamento dice che tu devi essere forte e riconosciuto in primo luogo in casa tua. Quanti italiani di Roma, Napoli e Milano consiglierebbero uno stellato come prima scelta? Non solo, ma i primi a dare valore al danaro non sono i poveri ma proprio i ricchi, e sono loro che stanno disertando, per tempi, per salute e per soldi, il fine dining.
Se io avessi continuato ad usare la macchina da scrivere per lavorare sarei uscito fuori mercato del lavoro già trent’anni fa. Perchè cuochi e proprietari di ristorazione non capiscono che non si può restare immobili in un mondo che è cambiato?

Ci sono poi errori strategici.
Finché la sala non riprende la leadership dell’impresa gastronomica la crisi sarà irreversibile. A parte cinque o sei chef star, la gente si è rotta le palle di andare a messa e vuole il personaggio carismatico in sala, non in cucina. Soprattutto in Italia dove veniamo dalla cultura delle trattorie e degli osti. Vuole qualcuno che faccia sorridere, che sia elastico non che enunci i piatti cercando di ricordare i millemila ingredienti e trigonometrici processi lavorativi. Quando comprate un’auto chiedete per caso come viene costruita? La gente si siede a tavola per divertirsi, non per pregare.
Il servizio è tutto, soprattutto nella società dove domina il marketing.

Beh. Avete visto la forza di Stefano Bonilli quale era. Spingere alla riflessione senza adagiarsi sulla routine.
Ciao ciao

Ps
Vi allego un pezzo che ha ormai oltre quattro anni in cui avevo praticamente previsto tutto con largo anticipo e per il quale fui letteralmente aggredito e insultato sul mondo dei social dal club delle tartine al caviale. Addirittura una tipa mi disse che ero saccente per aver citato Marinetti che si studia alle medie.
Scusate l’autocitazione

Un commento

  1. Analisi spietata, ma vera. Del resto ti rappresenta molto, è da personaggio autentico quale sei che non le manda a dite. Mi ritrovo perfettamente per esperienze e curiosità personali. Insomma mi è capitato di essere più soddisfatto e appagato da una insalata di pomodori diversi servita dal simpatico sorriso di una ragazza che da un ristorante stellato dove ho mangiato bene ma alla fine sono uscito con un senso di insoddisfazione profondo… sulla differenza di costo non ne parliamo proprio, il rapporto è 1:7.

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