Bernardo Bertolucci e il cibo
di Roberto Curti
La notizia più bella del mio 2011 cinematografico? Il ritorno dietro la cinepresa di Bernardo Bertolucci, a quasi un decennio da The Dreamers. In attesa del suo nuovo film Io e te, dal romanzo di Niccolò Ammaniti, un breve viaggio nel suo cinema, e al ruolo che in esso ha il cibo…
«A Parma si mangia sempre troppo. Prima si mangia, e poi si parla di quello che si è mangiato. Fatica doppia, è un po’ come mangiare due volte» dice Gina (Adriana Asti), insonnolita sul divano dopo il pranzo pasquale. Replica Fabrizio (Francesco Barilli): «Pensa, oggi, Santa Pasqua, a Parma molti non si alzano neanche da tavola. Tutta una tirata, pranzo e cena. Fanno la “dodici ore” del Lambrusco». Poi, i due amanti iniziano a ballare sulle note di Vivere ancora di Gino Paoli. La cinepresa non li lascia un istante, e ne scruta i volti di innamorati. Pigra e sensuale, è la sequenza più bella di Prima della rivoluzione (1964), l’opera seconda che il giovane Bernardo Bertolucci torna a girare nella sua Parma dopo La commare secca.
Se in ogni film del regista parmigiano c’è una sequenza di ballo, il cibo è una presenza non meno importante. Sensuale, simbolica, persino politica: se la cinefilia è questione di scelte di campo («Non si può vivere senza Rossellini!» fa scherzosamente dire il regista a un personaggio in Prima della rivoluzione), anche i momenti dedicati alla tavola possono essere metafora di vita e di affetti, chiave di lettura di un momento storico, mezzo per raccontare la lotta di classe, esplosione di sensi – e vengono in mente i versi del padre Attilio: «Un vino d’oro splendeva nei bicchieri / Che ci inebriò, / L’amore, nei tuoi occhi neri, / Fuoco in una radura, s’incendiò» si legge in Pagina di diario, da “Fuochi in novembre”.
Si evoca il cibo, e il pensiero corre inevitabilmente al galeotto panetto di burro di Ultimo tango a Parigi: ma tutto il cinema del regista è denso d’appetiti cinefili, politici e carnali. Offre sapori forti, netti, decisi. Come quelli a cui sono abituati i parmigiani, figli di una città colta, sussiegosa, opulenta, che vive nella memoria di uno splendore i cui riflessi si manifestano anche nello stare a tavola, e nell’orgoglio di un’industria alimentare che produce gioielli per il palato di cui vantarsi come del glorioso passato ducale e delle pagine di Stendhal dedicate, con molte licenze storiche, alla città.
In Strategia del ragno (1970) – racconto borgesiano dove Athos Magnani (Giulio Brogi), tornato al paese (l’immaginaria Tara, nella realtà Sabbioneta) per scoprire la verità sulla morte del padre antifascista, apprende che l’uomo era in realtà un doppiogiochista – l’essenza parmigiana prende corpo in uno dei personaggi più indimenticabili del cinema di Bertolucci: l’assaggiatore di culatelli ed ex partigiano Gaibazzi, interpretato da Pippo Campanini, attore non professionista che diventerà una presenza feticcio nei film del regista parmigiano.
Fidentino, classe 1903, Campanini è uno di quei personaggi che sommano in sé i tratti tipici di certa parmigianità: appassionato melomane, poeta per diletto, gastronomo, amico fraterno di Attilio Bertolucci, Campanini era divenuto noto al pubblico nazionale nel 1965, quando Ugo Gregoretti l’aveva incrociato nella natìa Fidenza in uno dei suoi pellegrinaggi televisivi in giro per l’Italia (I RAS, acronimo di Ridotte Attitudini Sociali). E l’avrebbe poi descritto con pochi mirabili tocchi («il melodramma in bottiglia») anche Mario Soldati in Vino al vino.
In Strategia del ragno Campanini recita se stesso: e Bertolucci gli regala il proscenio in una scena ambientata in mezzo a culatelli appesi che Gaibazzi infilza con l’osso di stinco di cavallo per saggiarne la stagionatura, e con un monologo sul tesoro gastronomico suino («Il culatello è la quintessenza del prosciutto, è la parte rotonda, lo dice la parola stessa») screziato da spontanee divagazioni umoristiche. Come quando l’assassiatore racconta di un produttore tirchio, i cui culatelli sono però i migliori, perché, spiega, «se avanza un po’ di minestra, è per il maiale. Magari sua moglie la mangerebbe ancora ma non gliene dà mica, la tiene per il maiale!». Più tardi, a tavola davanti a un piatto di trippa, un bicchiere di lambrusco è il pretesto per un’estemporanea riflessione sulla natura umana: «C’è un po’ di legno, è un difettino… lo senti il difettino? Vedi, il vino è come un uomo: può avere dei difettini e può essere simpaticissimo lo stesso. Anzi, qualche piccolo difetto delle volte – piccolo, intendiamoci – può anche giovare».
Campanini tornerà in Novecento (1976) e nel controverso La luna (1979), ancora ad affettare salumi e annusare culatelli, stavolta oste (ovviamente melomane) in una sperduta osteria dalle parti di Busseto, intento a far scoprire all’adolescente eroinomane Joe (Matthew Barry) le delizie del salume per eccellenza, accompagnato da un buon vino bianco. Campanini è per Bertolucci una sorta di divinità minore della buona tavola, impegnato com’è a dispensare conoscenza e felicità in un mondo che ne ha disperatamente bisogno. Perché la tavola crea intimità, e condividerla implica fiducia e complicità, come quella che nasce in La tragedia di un uomo ridicolo (1981) tra l’industriale Primo Spaggiari (Ugo Tognazzi) e l’”operaio-prete” (Victor Cavallo) che fa da tramite coi rapitori del figlio, seduti sotto il pergolato di una trattoria di collina. Qui lo stare a tavola insieme è gesto che annulla la differenza di classe: il contrario di quanto avviene in Novecento (1976), dove la differenza tra la tavolata allargata del mezzadro Leo Dalcò (Sterling Hayden) e quella tutta argenti e porcellane della famiglia padronale di Alfredo Berlinghieri (Burt Lancaster) è esemplificata in due sequenze speculari (i contadini alle prese con fumante polenta ridono, scherzano e riflettono amaramente sul loro status di servi, i padroni piluccano rane fritte in un’atmosfera fredda e scostante) in cui è chiaro da che parte stiano le simpatie, anche gastronomiche, del regista.
Per quanto raffinato nella forma, il cinema di Bertolucci è sanguigno e primordiale nell’uso dei simboli e nella scelta delle tematiche, dalla sempiterna ricerca del padre all’incontro/scontro generazionale, dalla scoperta dell’eros al suo legame con la morte. E anche qui il cibo è un emblema forte e immediato. Si prenda l’incipit freudiano di La luna. Su una terrazza che dà sul mare del Circeo, un bimbo sgranocchia un biscotto inzuppato nel miele, le cui gocce gli ricadono sulle cosce che la madre amorevolmente bacia, per poi offrire al figlioletto il dito ricoperto dal nettare da suggere, come un surrogato del proprio seno. Un’immagine di serenità primaria spezzata dall’irruzione del padre, che arriva con una cassetta di pesci da pulire per cena e strappa la madre al figlio in un ballo improvvisato sulle note di Saint Tropez Twist. Il piccolo, ignorato, inizia a piangere, e corre dalla nonna srotolando dietro di sé un gomitolo di lana a mo’ di simbolico cordone ombelicale.
In La tragedia di un uomo ridicolo torna l’idea del cibo come tesoro da custodire sotto chiave, e far fruttare. «Questa è la camera dell’uranio» diceva Gaibazzi a Athos Magnani nella stanza dei culatelli, «Ti faccio vedere il mio Fort Knox» proclama Spaggiari – titolare di un’azienda agricola nella pianura parmense, il quale nelle scene iniziali domina la sua «roba» dal tetto del suo stabilimento, armato di cannocchiale e berretto da marinaio come il capitano di una nave su una tolda – mostrando alla moglie (Anouk Aimée) le forme di Parmigiano che riempiono gli scaffali del magazzino di stagionatura in file ordinate da terra al soffitto («I miei lingotti d’oro»). Come nei film precedenti il cibo è anche un simbolo, primordiale e vitale: «Il ciclo della lavorazione del latte mi fa venire in mente la catena della famiglia, il liquido che diventa solido» riflette Spaggiari. E il pensiero corre alla stalla di Novecento dove l’anziano patriarca andava a morire tra gli escrementi e il latte appena munto, dopo aver tentato invano di stimolare i sensi intorpiditi dall’età con l’aiuto di una giovane contadina.
Passano quindici anni da La tragedia di un uomo ridicolo a Io ballo da sola, il film del ritorno in Italia dopo gli Oscar di L’ultimo imperatore e i successivi Il tè nel deserto e Il piccolo Buddha; e nel frattempo quella frattura generazionale osservata da Spaggiari («I figli che ci circondano sono dei mostri, più pallidi di come eravamo noi. Hanno occhi spenti; trattano i padri con troppo rispetto o con troppo disprezzo») si è aperta in un baratro che ha inghiottito gli ex rivoluzionari di un tempo. I padri sono ancora una volta distanti, assenti, se non sconosciuti, e i giovani ballano da soli, al suono di una musica che hanno in testa e che gli altri non possono udire.
Le ripetute scene conviviali nel film del ’96 riflettono questa dispersione. Spiccano per il disordine e la mancanza di armonia: si tratti di una colazione all’aperto in una splendida mattinata estiva, una cena in pizzeria o una festa danzante in una villa padronale, la comunanza è solo estemporanea e apparente, il nutrimento è atto da consumare frettolosamente, magari in piedi, ognuno per sé. È uno dei tanti indizi della generale disillusione ideologica e dell’insoddisfazione che emergono dietro all’edonismo di facciata esibito come una bandiera, in un paese dove «nessuno ascolta gli altri, tutti a proclamare delle opinioni. E’ diventato il paese dei monologhi», come dice un personaggio; e in pizzeria, nel bel mezzo della cena, l’anziano Jean Marais sbotta: «Io vi amavo tutti quando eravate vivi!» certificando la morte civile di un’Italia dove già spuntano inopportuni i cellulari, e il paesaggio del Chianti è deturpato dall’arrivo di un ripetitore tv «per fare il lavaggio del cervello agli elettori italiani».
è solo alla fine, quando lo scultore Ian (Donal McCann), la moglie e i figli si siedono a tavola dopo aver deciso di abbandonare l’Italia e tornare in patria, che si crea quell’alchimia in precedenza così volatile. C’è chi addenta una mela, e chi sbircia nel frigorifero. Occorrerà improvvisare una cena alla buona, ma il futuro non è più qualcosa da subire, bensì da scrivere. Preferibilmente davanti a un piatto di salumi e a un bicchiere «d’un vino così dolce così fosco» di cui inebriarsi.
6 Commenti
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Si narra di epiche mangiate dei protagonisti di Novecento nella mitica osteria dei Cantarelli a Samboseto. Depardieu e Sutherland i più compenetrati nella parte: un film nel film, una sorta di piano sequenza, largo, lungo, a una profondità di campo che tutto prende e considera. Lento, perchè da quelle parti si avverte davvero un briciolo di lentezza in più nel vivere, e quindi nel mangiare.
Bellissimo post, grazie mille, e vedo che Fabrizio legge Cronache Gastronomiche di Bolasco-Trabucco, spassoso e strepitoso libro per noi enofooddstrippati.
A dire il vero, e con tutto il rispetto per gli autori citati, credo di averlo letto o sentito dire da Bonilli (ma forse siamo sempre lì, in fin dei conti…): è sempre bello il gioco del passaparola, fino a perdersi nel mito ;-)
Bonilli, Bonilli altra fonte molto accreditata
Adoro Betolucci e Novecento lo guardo almeno una volta all’anno insieme ad un altro film cult italino che potrei recitare a memoria, Sedotta ed abbandonata di Pietro Germi, altro grande regista italiano. Bellssima questa rubrica curata da Roberto Curti e spero proprio di riuscire a procurarmi Strategia del ragno che non ho mai visto.
Molto bene Roberto, passerei molto volentieri tutto il mio tempo libero a rivedere questi fantastici film, ma passo troppo tempo a leggere e scrivere su queste pagine. ; )))) Per fortuna ora le due cose confluiscono. Mi concederò presto una videoteca con i fiocchi e seguirò con attenzione i tuoi spunti. Con simpatia. m.p.