Dieci anni dopo: il Barolo 2015 raccontato da Mauro Carosso
di Tonia Credendino
Un re in visita a Caserta
A Caserta, città che da sempre custodisce eleganza e bellezza tra architetture regali e cultura viva, l’Enoteca La Botte è una delle sue gemme più preziose. Un luogo dove il vino si respira ancor prima di berlo, dove ogni bottiglia ha una storia da raccontare. Ed è proprio qui che, il 21 marzo, si è tenuto l’evento “10 Anni di Barolo”, organizzato da AIS Campania – Delegazione di Caserta, sempre attenta nel portare contenuti di spessore e grandi protagonisti nel mondo del vino.
A guidare la serata è stato Mauro Carosso, relatore AIS di riferimento nazionale, capace di tenere il pubblico connesso per due ore piene, tra informazioni tecniche, suggestioni storiche e punte di ironia affilata. Sette i Barolo in degustazione, più un ottavo vino a sorpresa, che ha aggiunto un guizzo imprevisto a una scaletta già impeccabile.
Il Barolo: storia, sostanza e carattere
Carosso ha condotto i presenti attraverso la storia del Barolo con la precisione di un archivista e la leggerezza di un narratore. Si parte dalle origini romane, fino alla prima testimonianza scritta sul Nebbiolo risalente al 1266, conservata nell’Archivio Storico di Torino. Il nome “Barol” compare invece nel 1751, in una lettera diplomatica che lo propone come vino da esportare in Inghilterra. Persino Thomas Jefferson, nel suo viaggio in Piemonte del 1787, lo descrive come un vino che sa essere morbido, secco e frizzante nello spirito, tutto insieme.
Ma la storia non è mai ferma: negli anni ’80 un gruppo di produttori giovani, audaci e un po’ ribelli — i Barolo Boys — rivoluziona il panorama delle Langhe. Scelgono rese più basse, affinamento in barrique, vinificazioni più brevi. Cambiano tutto, ma senza tradire il territorio. Nascono così Barolo più accessibili, più intensi nel frutto, più immediati — senza perdere struttura o identità.
Il tannino: presenza necessaria
Durante la serata, Carosso non si risparmia, toccando i nodi cruciali dell’identità del Barolo. Tra questi, il tannino. Ne parla con la familiarità di chi lo conosce da sempre. Per apprezzare un vino del genere, dice, bisogna amare il tannino, comprenderlo nella sua presenza vibrante, mai addomesticata. Il Nebbiolo, d’altronde, non ha bisogno di effetti speciali: si fa da parte dietro la denominazione, ma quando arriva nel calice, la sua voce è chiara e distinta. E poi, diciamolo: un vino senza tannino, alla fine, è come un film senza trama — può anche piacere, ma ti lascia con la sensazione che manchi qualcosa.
L’annata 2015: energia e finezza
Il 2015 è stata un’annata generosa nelle Langhe: sole, equilibrio, piogge al momento giusto. I Barolo nati in quell’anno raccontano un clima che ha permesso maturazioni perfette e vini già oggi godibili, ma comunque capaci di affrontare l’invecchiamento con grazia. I tannini si mostrano più domati, l’acidità presente, la materia abbondante ma ben scolpita. Un Barolo in stato di grazia, che accoglie senza sedurre troppo in fretta.
Il mio preferito: Ginestra Vigna Sorì Ginestra 2015 – Conterno Fantino
Tra tutti i vini in degustazione, ce n’è stato uno che mi ha colpita nel profondo. Il Barolo Ginestra “Vigna Sorì Ginestra” 2015 di Conterno Fantino è un racconto di precisione, bellezza e carattere. L’azienda nasce nel 1982 a Monforte d’Alba, da Claudio Conterno e Guido Fantino, e oggi è tra le realtà più solide e rispettate delle Langhe. Coltivano secondo pratiche biologiche, con un’attenzione estrema alla sostenibilità e alla pulizia stilistica. I loro vigneti si estendono sulle colline di Monforte, in particolare nella MGA Ginestra, uno dei cru più eleganti e longevi della zona.
Nel calice si presenta con un rosso granato luminoso, già affascinante alla vista. Al naso offre una tavolozza ampia e stratificata: mora matura, confettura scura, spezie dolci, note di foglie secche, tabacco biondo e una sfumatura balsamica appena accennata. Ma più che elencare gli aromi, quello che mi ha colpito è la sensazione di profondità e calma che questo vino trasmette. Come un discorso ben scritto, senza urla, ma pieno di cose da dire.
In bocca è pieno e caldo, ma anche misurato, con una struttura elegante e avvolgente. Il tannino è fitto, sì, ma ha la grazia di un tessuto nobile: c’è, si sente, ma non domina. Non cerca attenzione, la ottiene. È un Barolo che non fa scena, ma lascia il segno.
Mi ha ricordato certe persone che parlano poco, ma quando lo fanno, ti rimangono dentro. E tra tutti i calici della serata, è quello a cui sono tornata col pensiero, e forse anche col cuore.
Confessioni da calice pieno
Questa serata mi ha confermato che il Barolo è molto più di un vino. È un linguaggio. Un modo di pensare il tempo, la terra, la fatica e la bellezza.
E poi c’è stato quel piatto. Gli agnolotti piemontesi con sugo d’arrosto, preparati secondo tradizione e portati in treno da Mauro Carosso, hanno fatto qualcosa che il vino da solo, per quanto grande, non riesce a fare: lo hanno svelato. Hanno dato profondità al sorso, lo hanno accolto e rilanciato, lo hanno fatto vibrare su una corda più umana. Il gusto pieno, il fondo saporito, la consistenza morbida dell’impasto: tutto parlava la stessa lingua del Barolo, ma con accento casalingo e affettuoso. È lì che il vino ha davvero preso corpo, senso e verità. E, per un attimo, sembrava che tutto — annata, calice, racconto e forchetta — fosse esattamente dove doveva essere.
Devo ammetterlo: anche col vino, come con le scarpe, finisco spesso per scegliere quello che costa di più. Non è una questione di etichetta, ma di sensazione. C’è dentro una storia, una cura, una complessità che sento subito. Una produzione limitata, una storia da raccontare, una ricerca dietro che si sente prima ancora che si assaggi. Questione di cuore, e di allenamento al dettaglio.
E così, alla fine, dopo otto calici e altrettante storie, ho capito che il Barolo non si sceglie. Ti sceglie lui. E quando lo fa, non resta che alzare il bicchiere e ascoltarlo.