Appunti testamentari. Avanguardia, movimento, modernità: tre concetti profondamente diversi anche in gastronomia
In giorni in cui l’Italia si compiace del suo inossidabile anche se un po’ incrinato e malconcio dna, ossia la famiglia, viene voglia di parlare di Avanguardia Gastronomica.
Intendiamoci anzitutto sul significato italiano del termine: una definizione tipica “di quei movimenti letterari o artistici che propugnano o attuano nuove poetiche o nuovi modi espressivi in contrasto con la tradizione e con il gusto corrente”.
Ora la prima osservazione che dobbiamo fare è che per essere avanguardia si deve essere un movimento, ossia più persone che, per un motivo o per l’altro, vanno in una stessa direzione non battuta da altri. Può essere un solo individuo una avanguardia? In senso generico si, ma se poi dobbiamo misurare la ricaduta sulla società, ossia sulla gestione quotidiana delle cose e della loro rappresentazione, allora un individuo che non ha seguito può essere al massimo un precursore.
Spesso e volentieri si è parlato di avanguardia gastronomica negli ultimi anni in Italia, forse sarò tranchant, ma credo che in Italia la prima e unica avanguardia gastronomica siano stati i Monzù fra Settecento e Ottocento nel Regno di Napoli. Fu allora, infatti, che alle tavole dei ricchi si sviluppò la cucina verticale che a New York, tanto per dire, arriva solo dopo 150 anni nel famoso Gotham di Alfredo Portale. In realtà, è la stessa cucina italiana in quanto tale ad essere diventata avanguardia grazie a loro nel corso degli anni, a cominciare dall’introduzione del concetto di “primo” ancora oggi totalmente assente e che ha le sue radici della assoluta necessità di carboidrati da pasta e in parte da riso da inserire nella dieta quotidiana. La pasta, in particolare, è il made in Italy capace di distinguere i ristoranti italiani all’estero. E quanto più, nel corso dei decenni, questa impostazione si è radicata su tutto il territorio nazionale, tanto più l’immagine e la spinta propulsiva della cucina italiana nel mondo è cresciuta trascinando poi anche altre icone, come il prosciutto, il parmigiano, la burrata pugliese, il pesto ligure, il tiramisù.
Essere stati innovatori non vuol dire aver svolto il ruolo di avanguardia in Italia perchè tutto il cambio di abitudini, da Gualtiero Marchesi in poi, non è stato altro che importazioni di tecniche, concetti, gerarchizzazione nate in altri paesi. La Francia anzitutto, poi la Spagna, il Giappone e in parte i paesi nordici il cui ruolo fu abbastanza circoscritto da Ferran Adrià in una intervista che mi rilasciò per il Mattino nel 2012: il Vento del Nord, disse, è una tendenza, noi siamo stati una rivoluzione.
Infatti se dovessimo enumerare i piatti che, superata l’infosfera (cit) della ristretta cerchia dei gastronomi e dei gastrofighetti, sono poi entrati nell’uso comune quotidiano non dico delle famiglie ma dei ristoranti, non potremmo raggiungere le due cifre. Ed è questo che demarca poi il confine vero per poter parlare di Avanguardia.
Del resto, ancora, se dovessimo citare i ristoranti spagnoli o danesi aperti in Italia e confrontarli con quelli italiani e giapponesi aperti nel mondo occidentale e non solo, non ci sarebbe dubbio su cosa è realmente di tendenza oggi sul piano gastronomico.
La Globalizzazione ha creato però una sorta di esperanto gastronomico in cui l’Italia c’entra molto poco a cui i francesi hanno tentato di resistere (con la creazione della Liste ad esempio). Insomma, quella di Adrià può essere definita avanguardia per aver influenzato più di altri la grammatica di questo esperanto in maniera determinante, poi è stato un susseguirsi di tendenze con discepoli sparsi in tutto il Mondo. L’esperanto gastronomico, che si giova di Instagram più che dei congressi sponsorizzati per la sua diffusione, rende praticamente uguali i piatti in tutto il mondo fra i top chef come osservò argutamente Fulvio Pierangelini nel 2018. Ma, proprio come l’esperanto c’entra poco con la lingua parlata, così l’esperanto gastronomico c’entra ancora meno con la cucina cucinata fuori dai congressi.
La domanda è, quanto è stata forte questa rivoluzione in Italia? Sicuramente ha inciso nella gerarchizzazione dei piatti, per metà spagnola e per metà giapponese, nelle tecniche utilizzate, ma alla fine, stringi stringi, se anche analizziamo i tre stelle italiani, ma anche i due stelle, vediamo che si tratta di cucine italiane fortemente identitarie, dai piatti iconici alla narrazione e i cuochi che più se ne sono distaccati (Parini, Lo Priore) alla fine sono rimasti precursori (straordinari) e non movimento di avanguardia.
Grandissimi cuochi come Bottura, Uliassi, Alajmo, Heinz Beck, Crippa, Sultano, Esposito, Di Costanzo, che hanno dettato la contemporaneità della cucina nel Belpaese a partire dalla seconda metà degli anni ’90 sono quanto di più sinteticamente italiano si possa immaginare quando si provano i loro menu.
Sono cuochi italiani contemporanei che si rapportano alla tradizione che a sua volta è stata figlia di una vorace assimilazione delle diverse tradizioni regionali in diversa misura i cui contenuti restano scolpiti nella pietra da almeno una sessantina d’anni, da quando cioé la tv ha fatto l’unificazione psicologica del nostro paese incidendo nel vissuto quotidiano di ciascuno di noi.
Ancora oggi, come i nostri nonni, dici spaghetti e pensi a Napoli, tortellini a Bologna, panettone a Milano, pandoro a Verona, strudel al Trentino Alto Adige, cannolo alla Sicilia, amatriciana a Roma, eccetera eccetera. Ci sono regioni che più di altre hanno contribuito? Beh, basta vedere quelle che sono riuscite ad esportare il proprio modello alimentare fuori dai confini regionali: ovunque troviamo ristoranti napoletani, toscani, siciliani, emiliani e gli Abruzzesi a Roma e i pugliesi a Milano. Ultimamente anche romani fuori dal Lazio. Questo perchè da un lato il cibo segue inizialmente il flusso emigratorio, poi però diventa patrimonio nazionale quando è adottato ovunque. Questo non significa che ci siano regioni dove si mangia meglio delle altre, il bello dell’Italia è che ovunque si cucina magnificamente. Qui si analizza una cosa diversa, ossia la capacità di influenzare e non di essere influenzati.
Tutto è cambiato ma alla fine il canovaccio è rimasto lo stesso, imposto poi dalla industria alimentare attraverso la tv che ha tratto linfa dalle radici. Nel 1837 Ippolito Cavalcanti scrive il suo Manuale di Cucina Teorico Pratica in cui appare per la prima volta la ricetta dei vermicelli al pomodoro, piatto simbolo dell’Italia nel mondo. La risottatura della pasta in pratica è già realizzata, cambia il grasso, con l’olio d’oliva al posto dello strutto. Quante altre forme di diversificazione di questa ricetta conoscete, a parte i famosi spaghetti di Scabin?
Dunque più che di avanguardia bisogna parlare di modernità, contemporaneità. Rispetto a cosa? Semplice, in rapporto alle nuove esigenze alimentari (meno grassi, più leggerezza), sensibilità (meno carne e meno carni), attenzione alla salute (olio d’oliva e vegetali al posto del burro), rispetto dell’ambiente (prodotti stagionali e allevamenti etici).
Se noi oggi guardiamo con ironia a certi piatti in auge negli anni ’80 che non appartenevano al nostro patrimonio è proprio per questi motivi, come pure per lo stesso motivo cresce il rifiuto delle giovani generazioni verso alcune cose che tradizionalmente erano considerate delle prelibatezze (il cervello, il coniglio, l’agnello). Vale per i comportamenti sessuali come per quelli alimentari.
Oggi fischiare quando passa una donna è considerato un atteggiamento da poveri scemi, per dire.
Ma sostanzialmente la forza della cucina italiana è quella di essere anticiclica, ossia, con alcuni accorgimenti, di essere al passo con i tempi che cambiano soprattutto se vista da una prospettiva dal Sud del Mediterraneo, il cambio di paradigma che fa impazzire e starnazzare gli zendrini (la zeta resta minuscola in quanto sostantivo/aggettivo comune plurale) di turno: vegetale, mare, pasta e riso sono i punti del quadrilatero che la mantengono moderna. Un quadrilatero al cui centro c’è la gioia della convivialità, ossia il piacere atavico individualista di soddisfare la fame e quello umano di stare insieme nel farlo.
Questa è la sintesi della richiesta presentata all’Unesco di riconoscimento della Cucina Italiana come Patrimonio Immateriale dell’Umanità all’Unesco.
Le stranezze, la spettacolarizzazione, l’individualismo sfrenato, non diventeranno mai patrimonio comune perchè legate all’ego narcisistico dell’individuo, la cucina è fonte di elaborazione comune di un ceto sociale che, se dominante, diventa elaborazione comune di una popolazione o di gran parte di essa.