Angelo Gaja: un logo italiano per i prodotti fatti esclusivamente in Italia
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Angelo Gaja
La crisi viene da lontano, ha colpito duro e non è colpa dei produttori se li ha colti impreparati non essendo riusciti a prevederla per tempo neppure i premi Nobel dell’economia.
Il consumatore, di fronte alla riduzione del potere d’acquisto, ha abbassato anche la soglia del desiderio, anziché acquistare le eccellenze si è accontentato del buono quanto basta, che costa molto meno. Così dei prodotti tipici italiani a soffrire di più sono stati quelli di fascia di prezzo medio -alta.
Ha invece beneficiato della crisi il falso agro-alimentare, con parvenza italiana ma prodotto altrove, guadagnando mercato sia all’estero che in Italia.
Cosa fare? Sui rimedi i suggerimenti si sprecano.
– FARE PIU’ QUALITA’: ma per vino, olio, parmigiano… la qualità media non è mai stata così elevata.
– PIU’ RAPPORTO QUALITA’ PREZZO: ma si sono ormai fatti diventare buoni anche i vini offerti al pubblico a due euro a bottiglia.
– CHILOMETRO ZERO: per ora è un palliativo virtuoso. Serve a spronare i contadini a diventare piu’ intraprendenti, a confrontarsi con il mercato ed aiuta i consumatori a capire di più della stagionalità dei prodotti agricoli.
– ACCORCIARE LA FILIERA: occorre prima che i produttori si uniscano per aggregare l’offerta.
– PIU’ MARKETING: sono ancora troppi quelli che si vantano di non fare marketing. Diffidano della parola, le attribuiscono un significato equivoco, di trucco finalizzato alla vendita.
– NO OGM: il divieto va invece rimosso. Piuttosto vanno educati gli agricoltori ad essere piu’ responsabili ed i consumatori a riconoscere e premiarne i prodotti attraverso norme di etichettatura adeguate.
– COSTRUIRE DOMANDA: in Italia ci pensano gia’ i produttori, il sostegno pubblico va destinato ai mercati esteri.
– L’EXPORT DIVENTI UNA OSSESSIONE: verissimo, occorre pero’ favorire la crescita imprenditoriale.
– PROTEGGERE I MARCHI ITALIANI sui mercati esteri, combattere le falsificazione: si può, si deve fare di più.
Se la crisi non allenta la morsa qualsivoglia rimedio perderà di efficacia.
Resta la cronica assenza sui mercati esteri della presenza di catene di supermercati (italiani e non) capaci di valorizzare le eccellenze dell’agro-alimentare di casa nostra. Assume grande significato l’apertura di EATALY a New York avvenuta nei giorni scorsi: nella grande mela i migliori prodotti del mangiare&bere italiano saliranno su di un palcoscenico capace di esaltarne valore ed immagine e costruirne domanda.
Un progetto per il futuro
Nella situazione di mercato attuale i più fragili sono i produttori artigiani che costituiscono la stragrande maggioranza delle micro e piccole imprese italiane. Occorrono progetti atti a proteggere e valorizzare il lavoro degli artigiani. Da un anno la discussione s’è accesa attorno al marchio Made in Italy che vuol dire una cosa mentre il contenuto ne svela spesso un’altra. E’ una contraddizione impossibile da eliminare avendo, le aziende che hanno delocalizzato, meritoriamente contribuito all’affermazione del Made in Italy sui mercati internazionali.
Per gli artigiani potrebbe servire di più mettere in cantiere un nuovo progetto: ottenere che il prodotto TOTALMENTE realizzato in Italia abbia la facoltà (non l’obbligo) di essere contraddistinto da un logo, da un simbolo fatto realizzare dal più bravo dei designer italiani, da affiancare oppure no al Made in Italy.
Che comporti l’assunzione da parte del produttore dell’impegno (autocertificazione) di svolgere le fasi di lavorazione INTERAMENTE in Italia, con totalità di materia prima di provenienza italiana soltanto per l’agro-alimentare. Il progetto andrà sostenuto da una campagna di informazione atta ad istruire il consumatore sul significato del simbolo.
Nel progetto vanno coinvolti non soltanto gli artigiani, ma anche le associazioni sindacali e quelle degli esercizi commerciali: l’interesse di proteggere il lavoro eseguito in Italia coinvolge tutti.
7 Commenti
I commenti sono chiusi.
Mi sembra un ottima idea. Basterebbero le diciture e i loghi esistenti se funzionassero ma l’assunzione di una “carta dei servizi” da parte del produttore, a questo punto, data la scarsa efficacia degli strumenti già in essere, decisamente potrebbe rappresentare un passo. Ma poi i controlli dovrebbero essere intensi e senza deroghe l’applicazione di questa carta. Insomma un marchio che sia inattaccabile dal punto di vista della immagine e della affidabilità. Una seria selezione a monte (con anche l’apertura ai più piccoli artigiani, se anche loro lavorano a regola d’arte, come si spera) e un refresh continuo delle aziende partner: fuori quelle che non stanno alle regole.Auspicabile, poi, l’interazione con i clienti finali per misurate il grado di soddisfazione rispetto alla qualità proposta.
La crisi viene da lontano, e questa è l’unica considerazione che mi sembra condivisibile, pensando soprattutto a quello che abbiamo potuto vedere nel comparto vini da un ventennio a questa parte: dal ruolo di alimento, sottostimato, a prodotto di cui si è sempre più parlato e sempre meno consumato, il vino ha vissuto una parabola straordinaria, il cui apice è coinciso con una spropositata crescita del prezzo in generale, spesso e volentieri ingiustificatamente.
Ma non è questo il caso di Angelo Gaja, anzi a lui va sicuramenter il grande merito di aver contribuito alla diffusione del vino italiano nel mondo, almeno quello destinato al target alto di consumatori.
Troppi conferitori sono diventati produttori senza averne i mezzi e la competenza, troppe guide e disguide, enologi di grido, riviste di settore e il comparto che si gonfiava, si gonfiava e alla fine è esploso…….
E innegabilmente il vino ha fatto da traino a tutto l’agroalimentare, creando si curiosità e interesse per prodotti che fino a poco prima erano riservati a pochi intenditori (sigh, nda), ma anche portandolo sulla stessa parabola, di cui adesso stiamo vivendo la fase discendente………
Mi sembra abbastanza ovvio auspicare un autocontrollo da parte dei produttori, e soprattutto una strenua difesa della produzione nazionale, l’adozione di un logo va bene, ma non dimentichiamo che il famoso trade finale si confronta con la crisi vera, del consumatore che all’improvviso si trova di fronte ad un potere d’acquisto sensibilmente ridimensionato, e con i soldi contati in tasca vengono meno tanti desideri ………………
Secondo me non serve un nuovo marchio. E poi quando si scopre dopo un paio di anni che quel marchio è stato infiltrato da autocertificazioni falsi ci fa poi un altro Marchio Garantito e poi un Marchio Garantissimo e poi Garantissimissimo…
Il marchi ci sono: Made in Italy, DOP, IGP, DOCG, DOC… che con la nuova OGM vino sono anche garantito sul livello globale. Lamentarsi delle sofisticazioni va bene ma direi tanti sono fatti in casa. Marchi vengono indeboliti perché i singoli produttori/soci si sentono liberi di fare quello che vogliono loro a secondo di un breve vantaggio commerciale, aggiungendo per esempio un vitigno non ammesso (caso Brunello)…
Il potere per evitare tutto quello, che viene qui sollecitato, esiste, servono solo i controlli e serve rispettare le già esistenti regole, normi e disciplinari e nominare chi non lo fa per poter, in conseguenza, individuare chi si tiene alle regole, leggi e disciplinari. Finché in Italia si cade sempre nel pensare di poter travisare regole, leggi, disciplinari quando pare e va comodo finché non servono neanche nuovi leggi, marchi… perché si tratto solo di attivismo e non di togliere il problema alle radici e cambiare veramente qualcosa.
Mi auguro che Gaja riesca a farsi sentire.
nel mio “piccolo” lo chiedo da anni,
lo chiesi quando ero direttore al Consorzio del Gavi, lo chiesi come esponente Slow Food al ministro (tremenda iattura) pecoraro scanio e lo chiesi ancora personalmente al ministro alemanno… su TUTTI i prodotti, non solo sul vino, lo STATO dovrebbe brevettare il marchio Made in Italy riservandolo ESCLUSIVAMENTE ai prodotti 100% Italiani.
basta con le mozzarelle tedesche, o con la grappa che arriva dalla francia.
Oggi, a partire dalla moda, per arrivare al vino, o alle automobili, è una situazione vergognosa: centinaia di cisterne di vino dell’est europa che si trasformano in doc italiane, automobli costruite in polonia o in turchia o in brasile spacciate per prodotte in Italia, e la fiat si prende anche le nostre tasse come contributo per pagare gli incentivi a marchionne e far licenziare operai italiani.
Nella moda e nelle scarpe, o negli occhiali, da dove tutto è cominciato, bisogna cominciare a dire che il “made in Italy” non esiste di fatto quasi più: MADE IN ITALY significa “fatto in Italia”, non “etichettato in Italia”
ovviamente sugli OGM dissento completamente da Gaja, che ragiona da industriale liberista non tenendo conto che il polline viaggia con api e vento, e le contaminazioni in campo aperto o in vigna sarebbero inevitabili, senza alcuna certezza su eventuali conseguenze.
La mia impressione è che si cerchi solo di tastare il terreno, per verificare le reazioni.
Nella proposta infatti, si parla di facoltà e non di obbligo e che il logo eventualmente affianchi e non sostituisca il made in italy.
Mi sembra tutto un po’ fumoso e così proposto rischi di ingenerare ulteriore confusione per l’utente finale.
Proposta con lati interessanti, da approfondire.