Andrea Aprea: il mio segreto a Milano? Evitare clamori per restare concentrato
di Luciano Pignataro
“La mia estate? Adesso vengo a trovare mia suocera a Policastro per una decina di giorni insieme ai bambini, Vittoria e il piccolo Jacopo nato da qualche settimana”. Andrea Aprea, 41 anni, napoletano di Piazza San Carlo come Ilario Vinciguerra, è al vertice della ristorazione milanese. Executive Chef del Park Hyatt e chef manager del Vun, uno dei quattro locali bistellati della capitale lombarda. Figlio di ristoratori, per una nota curiosa del destino anche la suocera, Maria Rina, è una ristoratrice, il suo Ghiottone a Santa Marina sul Golfo di Policastro è da 30 anni il riferimento del buon mangiare. Di napoletano ha la velocità di pensiero e di risposta, la capacità di adattarsi ad ogni situazione, ma per il resto è metodico come un tedesco, preciso come un inglese, pignolo come uno svizzero. Nessun cuoco a Sud di Roma della sua generazione può vantare la sua solida formazione internazionale e cosmopolita.
Dunque mai in vacanza da piccolo
“No, come tutti ho iniziato a lavorare subito, a 14 anni tra scuola e lavoro e appena fatto il servizio di leva a 18 ho avuto la spinta a partire”.
Qual è stato il tuo percorso?
“Dodici anni avanti e indietro. Prima Londra, le mie prime esperienze importanti a San Frediano e a Montpelliano, poi in Italia a Villa San Michele a Fiesole, a Milano da Bulgari e con Pino Lavarra due anni a Palazzo Sasso a Ravello”.
E dopo?
“Ancora Londra, la mia seconda città, da Heston Blumenthal e soprattutto da Michel Roux, icona della cucina.”.
Cosa ti hanno dato?
“Roux il rigore francese del mestiere, la precisione in alcune esecuzioni, le basi della cucina. Heston ha avuto audacia, ha visto aperto uno scenario diverso, più ampio e libero. Io penso che dopo che sei padrone delle tecniche, che devi comunque aggiornare perché il mondo corre, hai poi la possibilità di sviluppare la tradizione e l’uso dei prodotti di casa tua”.
E poi un salto anche in Malesia.
“Si, a Kuala Lampur precisamente, dove ho fatto la start up del ristorante di un complesso alberghiero. Devo dire che anche questa esperienza extra europea è stata importante perché mi ha aperto la mente, avevo solo 24 anni e ho avuto la possibulità di conoscere altre mentalità e soprattutto altri prodotti.”
Infine Napoli
“Qui è stata una esperienza difficile, purtroppo. Napoli è una città difficile anche per chi è napoletano: abbiamo avviato il ristorante dell’Hotel Romeo, appena partiti ci siamo trovati le inchieste giudiziarie, il sequestro del ristorante per una cubatura contestata. Ma ci ho creduto sino in fondo, sono restato tre anni e mezzo e sono contento per la proprietà che le cose si siano rimesse a posto e che il Romeo vada bene.”
Quando arriva la proposta dal Park Haytt
“Si, un nuovo ristorante tra Berton e Cracco, una bella sfida che ho affrontato programmando il mio lavoro sapendo bene cosa dovevo fare perché conoscevo Milano. La città ha una mentalità aperta e premia le nuove idee, è curiosa ma al tempo stesso esigente e non ama le mezze misure. Si lavora tanto ma c’è anche voglia di godersela. Cominciai nel settembre 2011 e l’anno dopo arrivò la prima stella. E adesso, dopo sei a pedalare, la seconda con la guida 2018”.
Quale è stato il tuo trucco per essere al vertice della ristorazione meneghina?
“Partire in sordina per rodarmi progressivamente. In Italia si amano le aperture clamorose, ma spesso si rivelano un boomerang perché creano alte aspettative. Un locale vive e si trasforma con il tempo e la frequentazione dei clienti, è una continua azione di avvicinamento all’obiettivo per difetto, ossia sbagliando e correggendo. Noi qui abbiamo potuto fare una cosa che mi piace: programmare. La sala si è ristrutturata, abbiamo migliorato costantemente tutti gli aspetti del servizio. Ecco, se si pianifica e si raggiungono gli obiettivi sul lavoro, cioè in primo luogo riempire il ristorante, poi arriva anche il resto”.
Tu sei executive ma anche manager del ristorante, gestisci 47 persone. Come hai imparato?
“Anche qui bisogna crescere e fare esperienza. Molti pensano che basti saper cucinare per fare un ristorante. Questa è la base, ma poi devi essere altrettanto bravo nel gestire i costi e a motivare il personale. La sala è importante quanto la cucina, soprattutto in Italia dove c’è ancora una precisa concezione del servizio e della sala, come poter scegliere alla carta e non a menu fisso ad esempio”.
Torniamo per un attimo a Napoli, cosa significa avere qui le radici per uno della tua generazione di girovaghi?
“Scherzi, Napoli è la mia città e la amo perché è vitale, solare, un grande palcoscenico. Una enorme palestra di vita che ti aiuta poi quando sei fuori. La tradizione gastronomica è molto importante qui, sicuramente tra le prime al mondo e io non la dimentico, anzi, cerco di interpretarla e di renderla leggibile ovunque perché credo che questo debba fare un cuoco, non dimenticare da dove si viene e fare uno sforzo continuo di aggiornamento. E poi Napoli vuol dire grandissimi prodotti di qualità, direi inimitabili. Certo puoi usare un pomodoro ad Hanoi e ovunque del mondo, ma quelli del Vesuvio sono un altro passo. E questo fa la differenza quando li metti nel piatto.”
L’idea di tornare?
“Mai dire mai. Forse un domani con qualcosa di mio, ma non un locale classico. Nel frattempo sto ben concentrato a Milano che sta vivendo una fase magica dopo l’Expò, la competizione è altissima e per restare al top non bisogna dormire sugli allori. Il Park Hyatt ha un potenziale che ci consente di aspirare a qualsiasi risultato, pianificando e lavorando sodo. Il successo non viene dal cielo e nessuno ti regala niente e io non mi sento affatto arrivato e, probabilmente, l’essere poco mediatico mi aiuta a stare più concentrato e attento non sbagliare. Il mio obiettivo è sempre lo stesso, forse dico una banalità ma ci credo: far tornare al ristorante chi è venuto la prima volta”.
Andrea Aprea, Park Hyatt Milano