Ambivere (BG), Antica Osteria dei Camelì
Se oggi vi tocca sopportare Maffi, sappiate che l’inizio di tutto fu Camillo Rota e la sua Osteria. Fu il primo locale di una certa pretesa che mi iniziò alla carriera e alla rovina, finanziaria e fisica. Uscito a fatica dal limbo della rivoluzione femminista, peraltro assolutamente condivisa, mi sedetti a quel semplice, allora, desco costringendo la mia fidanzatina di allora, 1975 o giù di lì, per una serata a mollare gli odiosi collant per una stimolante mise a reggicalze e compagnia, con la promessa che nel dopo cena il su e giù nella Renault 14 di mia mamma sarebbe stato ancor più “corposo”. Camillo mi prese in contropiede: la descrizione che fece dei piatti e dei vini proposti fu unica, almeno in Italia, in quei tempi poi! Finì che il tempo se ne andò tutto e anche oltre e la poveretta dovetti riaccompagnarla, già in grave ritardo, senza quell’ambito passaggio nel bosco dietro casa. La storia, diciamo così, sentimentale finì presto. La bimba aveva capito, con la solita intuizione femminile, che avrebbe sempre perso la guerra, DI POCO SIA CHIARO ma perso, contro il Camillo e qualunque altro ristoratore affascinante. Direi 3 a 2. Volevo citare qui, per intero, il mio cameo sulla guida dell’Espresso in onore dei Camelì. Mortificherei però il pezzo di cui Stefano Caffarri mi ha omaggiato a titolo personale. Sono generoso e lo condivido con voi, nella speranza che in due si riesca a trasmettervi la sensibilità di Camillo Rota, ristoratore e affabulatore di cibo…..(Giancarlo Maffi)
Mentre remi svogliatamente in mezzo alla sera allungata sulle sessantaquattro corsie dell’autostrada, l’amico vermilinguo* ti parla dentro la testa attraverso gli auricolari dell’apparato tecnologico. Dice dai, vai, vedrai, e tu che a quell’ora di mezza sera sei ammalato di solinghitudine gialla e lattiginosa segui il consiglio: che a volte è dolce naufragare e lasciarsi sospingere abbandonando il vorticoso decisionismo quotidiano.
Dàlmine è un nome che conosci perché c’erano le azioni, quando la borsa non era solo una costosa escrescenza di Luigi Vittone, e perché c’erano i segnalini in quel giuoco da tavola di cui non ricordi più il nome: ma lo pronunciavi Dalmìne, perché quello sdrucciolevole accento sulla “a” non è così orecchiabile, e ci si inciampa spesso e volentieri.
E’ a Dàlmine dunque che giri il volante, abbandonando quell’immensa pista d’aereo che trafigge la Pianura Padana come un infarto, e ti infili nella foresta di capannoni e di insegne bislacche guardandoti scarsamente attorno: la nebbia farinosa trasforma i proiettori tedeschi al xeno-bromo-cromo-vanadio in lumi cachettici, fiochi come fuochi fatui.
Ne fai cento, forse centoventi, di curve ad angolo: per atterrare nel parcheggio acciottolato dell’Antica Osteria, che per una volta è antica davvero: aggetta sulla piazzetta da non meno di cento cinquant’anni.
Camillo Rota impersona con fatalità la figura più nobile dell’Oste Contemporaneo, spogliando della retorica rustico elegante e concentrandosi sull’ignaro avventore, pronto ad affidarsi al suo discorrere come ad un abbraccio rassicurante. Ti riceve come se mancassi solo tu per mandare in onda un’edizione epica dell’Aida, ti accompagna mezzo passo davanti, con la testa leggermente reclina per non perderti d’occhio nemmeno un istante.
Fa in modo di trovarsi sempre dalle parti del tuo tavolo quando hai bisogno di qualcosa, ti ricopre di informazioni sulla cucina che verrà, ti prende bene le misure per sbicchierare questa piccola produzione di Franciacorta, o quel Rosso di langa dimenticato negli angoli della memoria.
Ma vale la pena di osservarlo quando irrompe nella piccola sala con i muri di pietra tenendo il panone appena sfornato come un padre che mena il neonato ai famigliari: fratelli zii cugini e affini fino al terzo grado. Ti spiega la farina, il lievito madre, la lavorazione, lo studio, la conoscenza umile ma continuamente aggiornata, l’inesauribile pulsione all’approfondimento.
Poi, certo, ci sono i piatti: e per una volta potrai affondare nella mitologia della memoria, seguendo la stretta osservanza di una trippa fatta nel minestrone. Come si faceva cento anni fa, dice l’Oste Contemporaneo, quando il gran paiuolo cuoceva nel camino, e gli uomini del paese venivano a farsene tre, quattro fondine rovesciando interi otri di vini rossi, rosse le facce, rosse le pareti dalle fiamme.
Nel piatto di trippa naturale – che sia selezione Cazzamali non è solo mitomania da griffe – cotta a lungo secondo la liturgia, in mezzo ad abbondanza di verdure troverai degna resistenza, una bella vellutanza di robe-di-dentro e dolcezza di vegetabili, cremosità, e una certa ineluttabile e benvenuta grossezza. E infine, sopra tutto, la fagiuolanza tutta. Il giusto carburante per la macchina del tempo su cui non sapevi di essere seduto, ebbro di piacere, il palato ostaggio di una completezza che altrove risulterebbe robustissima: ma qui, ma qui. Qui pare che sia l’unica cosa che può accadere, stordirti di quelle cucchiaiate, fino a tinnire il cucchiaio sul fondo, e guardarlo smarrito e ormai inutile.
Poi certo, c’è dell’altro: ma per questo ahimè, dovrai farti la strada e salire ad Ambivere, che noi s’ha in uggia di fare tutto il lavoro.
N.d.A.: Vermilinguo indica favella alluvionale, agile e d’arduo contenimento
Antica Osteria dei Camelì
Via G. Marconi, 13
Ambivere (Bergamo)
Tel./Fax 03.5908000
www.anticaosteriadeicameli.it
Chiuso lunedì e domenica sera. Ferie una settimana a gennaio e tre in agosto
12 Commenti
I commenti sono chiusi.
NOTIZIA ANSA: Ecco ecco… lo sapevo!!!… CI SIETE RIUSCITI… adesso lo dichiaro sono gelosa del passato di Muffy Love <3 ihihihihihihi ;)
L’oste contemporaneo è irresistibile. Mi hai convinta. Il prossimo viaggio a Milano vale una deviazione a Dalmine, diamine.
Unico neo: le foto
Purtroppo mancavano entrambe e tre le condizioni che rendono una foto accettabile: la luce, la luce, e la luce. Quella del tappo che non è poi così malvaggia, godeva del biancore traslucido delle rose di seta.
Le zuppe, come ognun sa, sono purtroppo tra i soggetti meno fotogenici in assoluto, assieme ai brasati ed agli stracotti.
Me ne dolgo sommamente.
Anche le foto dei risotti non vengono molto bene… ;-)
E quelle del brodo?
C’è sbigottita disperazione in quel cucchiaio solingo nel piatto che piange (sia il piatto che il cucchiaio). D’altronde la trippa è godimento totale, calcio olandese, tutti all’attacco tra finezze e durezze, tra morso e seta, tra acido e dolce. Ma questa col minestrone di fagioli farebbe sbarellare anche Cruiff. Un cucchiaio non va lasciato mai solo, e quella foto che raccoglie il suo grido di dolore, è un buon modo per fotografare i pensieri, non secondo alla parola. Bello sarebbe un “tour della trippa”…
Immagino nel vorticoso accavallamento di gambe la poverina scrutata dal giovin Maffi, in fervida attesa. E pensare che credevo la passione per reggicalze di Maffi arrivasse dall’infanzia, da procaci zie poppute che davanti all’ignaro fanciullo mostravano cosce e spacchi da milf dei nostri giorni.. (per approfondimenti cfr. Grazie zia, 1968 – Malizia, 1973 ambedue di Samperi)
esatto!!!!!!
Ciao ragazzi.
Quando vado a trovare il direttore ci passo sembre da Ambivere ma non mi sono mai sognato di fermarmi li, ora lo so… :-)
Ah… le foto!
Dunque quando siamo al ristorante, a costo di essere presi per pazzi, prendiamo il piatto e lo poggiamo su un tavolo vuoto dove ci sia luce (a volte ci guardano male) e poi dai, non avevte il telefonino con il flash?
maremma…
ciao
Due suggerimenti preziosi, grazie mille.
Veramente preziosi ! della serie “mai più senza” del mitico Cuore :-))
leggere su Maffi è una goduria, trippa e reggicalze permettendo, che sia l’una che le altre attivano i sensi e la fantasia…