Alberto Grandi mette la Bufala sulla Pizza Paulista
Alberto Grandi ha un problema. Abbastanza serio. Deve cercare di spararla sempre più grande (nomen omen) per mantenere la visibilità che si è conquistato con il suo libro in cui sostiene che la cucina italiana non esiste.
Dopo aver sostenuto che l’uso del pomodoro è dovuto agli emigranti italiani in Usa, ossia a persone che erano andate in America solo DOPO la caduta del Regno delle Due Sicilie avvenuta nel 1860 mentre la prima notizia di una ricetta di vermicelli al pomodoro è attestata dal Trattato di Ippolito Cavalcanti del 1837 (nel 1736 Vincenzo Corrado aveva già predetto il successo di questo ortaggio nella cucina) ora spara sulla pizza.
La pizza, si sa, è argomento che funziona sempre per procurarsi un po’ di notorità. Quella che non gli hanno dato i suoi lavori scientifici. Grandi sostiene che la pizza a Napoli si sarebbe estinta se non fosse tornata indietro grazie alla pizza Paulista di San Paolo del Brasile dove in effetti vive la comunità più grande di napoletani al mondo, Napoli compresa.
C’è sempre un po’ di gusto nell’attaccare la cucina italiana che ha come icone mondiali gli spaghetti e la pizza nati nel ventre di Napoli. Sono operazioni che sembrano innocenti, ma che nascondono una profonda insoddisfazione culturale e commerciale da parte di una certa critica del Nord verso il fatto che lo stile alimentare del Sud sia dilagato ovunque dettando gusti e modalità in Italia e nel Mondo. Alla base una inconfessabile forma di terrapiattismo gastronomico che ha alla base la insofferenza (inconfessabile) verso tutto ciò che è meridionale.
Ricordo le tesi in voga una decina di anni fa secondo le quali la pizza napoletana era una articolazione regionale della pizza italiana e non viceversa, con la pretesa di riscrivere la storia ben ricostruita dal professore Mattozzi in uno studio pubblicato proprio da Slow Food e che attesta la presenza, documentata dagli Archivi nei quali il professore Grandi non si è nemmeno mai affacciato per sbaglio, di quasi settanta pizzerie all’inizio dell’800 tra il regno di Murat e la restaurazione Borbonica.
Poi l’Unesco ha rimesso le cose al loro posto nel 2017.
Ma l’antimeridionalismo gastronomico non demorde, ha basi culturali nei pregiudizi duri a morire e, talvolta, anche negli interessi commerciali. Legittimi ma opachi per chi tiene alla scienza e alla ricerca.
Torniamo a Grandi. Se oggi dicessimo che il sushi in Giappone si tenuto grazie al fatto che si è diffuso in Brasile, Perà e California, ci prenderebbero per pazzi.
Napoli vanta circa venti pizzerie che sicuramente hanno più di cento anni e che sono state sempre aperte. Nessuna di loro ha mai avuto membri andati in Brasile e tornati per fare questa attività. Più precisamente, nessuna delle circa mille e passa pizzerie aperte nell’area metropolitana napoletana ha un solo brasiliano o qualcuno che è stato in Brasile.
Non ci sono tracce documentarie di questa affermazione, solo un suggestivo storytelling che, per come funziona ormai gran parte dell’informazione addomesticata dai social, trova spazio sui media proprio perchè la balla è talmente grossa che merita di essere ripresa. Come la tesi che la Terra è piatta o che l’uomo non è mai stato sulla Luna.
Basta aver vissuto a Napoli, studiare le innumerevoli canzoni che parlano di pizza, rivedere i film di Totò e di De Filippo per capire che la pizza è sempre stato il cibo dei poveri e dei ricchi.
Sino al 1984 quando per la prima volta si fece un disciplinare e si creò l’associazione. Il resto è cronaca.
Ma tutto questo per il professore Grandi non conta.
Per lui i fatti sono una opinione, ma soprattutto, non fanno notizia.
Non male anche quella che fu Ancel Keys a insegnare alla sua cuoca di Pioppi Delia Morinelli a cucinare. FRANCESCO