Al Portico, Paolo Lopriore e il ritorno alla Trattoria
di Giulia Gavagnin
Dici “Avanguardia” e pensi a qualcosa di strano e bello, che prima non c’era. E’ così, ma il primo a utilizzare questo termine fu Baudelaire, e in senso dispregiativo: così definiva gli scrittori di sinistra, “avanguardisti”. In realtà, in origine era espressione militare, indicava la truppa più avanzata che agisce in missione esplorativa per prevenire le mosse del nemico: quelli che stavano davanti, ovviamente, avevano una buona probabilità di essere colpiti prima degli altri. E’ destino degli avanguardisti, dunque, rischiare l’incomprensione, le ferite, e in certi casi la pelle. Paolo Lopriore è stato “un caso” qualche anno fa. Cantore (appunto) dei sapori amari al Canto presso la Certosa di Maggiano, la leggenda dice che sia stato l’allievo prediletto del divin Gualtiero e di lui il vero erede nel perseguire il connubio tra arte e cucina.
A Siena rivisitava la ribollita toscana mimando le forme di una zolla di terra, come a dire che è da dove nasciamo e dove torneremo. Incensato dalla critica, mai troppo compreso dal pubblico (del resto, lo diceva sempre Baudelaire: “il pubblico rispetto al genio è un orologio in ritardo”), dopo qualche vicenda interlocutoria è tornato alla terra, la sua, e forse anche la nostra.
Dal 2016 è ad Appiano Gentile, suo paese natale, e ha invertito la rotta dell’Avanguardia. Prima esaltava l’amaro nella nota insalata di porcini al tabacco e noci che giungeva al tavolo perfettamente composta. Oggi, ad Appiano Gentile, è lui personalmente (o mamma, Rosa, sempre in sala) a portare una ciotola di apparentemente semplice riso in cagnone accompagnato da chicchere, pentoline, scodellette con il companatico necessario, come i filetti di pesce (rigorosamente) del lago dorati al burro, salvia e farina tostata.
E’ il commensale a dover comporre il piatto, non il cameriere: sovverte uno dei principi di Marchesi, che nel servizio e nel completamento del piatto (quello che oggi si chiama odiosamente “impiattamento”, termine che i nostri pc sottolineano in rosso come i professori ai tempi delle medie) vedeva il trait d’union tra la cucina e il cliente. Il piatto tra una portata e l’altra non si cambia, perché quello che c’era all’inizio trova continuità con quello che arriverà alla fine e ogni briciola acquisterà nuovi sapori dall’eredità precedente.
La Rivoluzione copernicana di Lopriore consiste in questo, nel presentare piatti della tradizione italiana, di memoria gustativa intellegibile, da comporre a piacimento come mattoncini Lego. Il sapore cambia a seconda delle quantità dei singoli ingredienti, delle salse e degli intingoli, da miscelare secondo l’umore del momento, senza un libretto delle istruzioni d’accompagnamento. Dietro a questo soul food ancestrale, di memoria pre-novecentesca, sembra che Lopriore ci ponga una domanda: che sia necessario allontanarsi dagli schemi precostituiti del ristorante di alta cucina, che sia opportuno fare un passo indietro? La suggestione è interessante, perché lo chef comasco non è un esordiente, ma un consumato attore del food-circus che ha raccolto premi, stelle, medaglie, in realtà “upper class” come le conosciamo. Camerieri attenti, che sussurrano gli ingredienti recitandoli come in una litania, piatti perfettamente composti, ingredienti alloctoni a volte stravaganti, ampia carta vini. Al Portico è tutto l’opposto: locali da ristorantino accogliente di provincia, la mamma in sala, ciotole e scodelle con cui giocare, caldi maccheroni e pesce fritto, carta del vino ridotta a nove etichette (tre bolle, tre bianchi e tre rossi).
Che sia questo il futuro da “trattoria 2.0.” della ristorazione di cui oggi tanto si parla? Non è semplice dare una risposta, ma saggio azzardare una considerazione: una trattoria “moderna” di questo tipo diventa archetipo se hai la mano e il passo di Paolo Lopriore, che è come dire Arthur Rubinstein che d’improvviso suona pezzi di musica popolare spagnola. Devi avere quella tecnica strepitosa e quella conoscenza profonda del mestiere che farà sì che tutto sarà realmente “buonissimo”. Perché di questo si tratta: buonissimo. C’è l’imbarazzo della scelta.
A pranzo un menu ridotto a 18 euro, la sera la scelta tra due menu completi, uno di carne e uno di pesce di lago a 60. La domenica il brunch a 45 euro, dove fanno capolino a inizio pasto anche squisite brioscine al burro e uvette con succhi di frutta appena spremuti e toast imburrati. La festa della domenica prosegue, ad esempio, con quiche di cipolle, uovo all’uovo, polenta e pesce di lago in carpione e burro nocciola e come di rapa in una nuvola di tempura. I piatti da condividere possono essere crespelle di farina di ceci con ragù di agnello, riduzione di peperone, salsa di pepe e pecorino ovvero uovo in camicia, frittelle di grano saraceno e bitto, radicchio da aromatizzare a piacimento con i chiodi di garofano. Per terminare, mele al forno con un sontuoso gelato alla vaniglia.
Nella semplicità c’è la forma della vera grandezza: per essere semplici, tuttavia, bisogna essere in primo luogo capaci. Lopriore insegna come si fa.
Al Portico
Via A. Volta, 1
22070 Appiano Gentile
2 Commenti
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Ci andai e ne scrissi su Armadillo in occasione della sua seconda serata ad Appiano Gentile, c’era un solo menù (50) sempre nove vini, ricordo pasteggiammo a Fric, oltre alle certezze sul piatto forte, l’unico che andasse oltre al gioco-cerebrale-conviviale, il coniglio con “ramerino” col suo intingolo e con i suoi fegatini (che mi chiarì il motivo per il quale lo chef, per tre anni di fila, è stato giudicato tra i migliori 50 al mondo) ebbi alcune perplessità, vedo che i menù sono diventati due (bene) e che oggi come allora, non cambiano il piatto né le posate (male)… forse sessanta più i vini è un prezzo “serio” e anche se mi piace giocare… ma potrei sbagliarmi ed essere anch’io uno di quegli orologi in ritardo… resta un fatto, Paolo dopo l’articolo, mi invitò a tornare, gliene dò atto, non l’ho ancora fatto e me ne scuso.
Brava Giulia! Hai descritto in modo perfetto lo spirito del “Portico” locale che frequento spesso fin dall’apertura.