Aia Vecchia 2000 Sannio doc di Torre Gaia |Voto 65/100
Uva: montepulciano e aglianico
Fascia di prezzo: annata nd, quella in commercio sopra i 20 euro franco cantina
Fermentazione e maturazione: acciaio e legno
Vista: 4/5. Naso 19/30. Palato 21/30. Non omologazione 21/35
Le linee possibili di sviluppo rossista che la Campania aveva all’inizio degli anni ’90 erano tre. La prima aperta dal Montevetrano, cioé dall’uso preponderante di vitigni internazionali. La seconda è la monovarietale impostata in Irpinia e che alla fine è risultata dominante nel resto della regione. La terza è la infinita combinazione di blend autoctono/autoctono, internazionale/autoctono, autoctono/nazionale.
Aia Vecchia si iscrive d’ufficio alla terza categoria, un bizzarro blend di montepulciano e aglianico molto diffuso anche in Molise e Puglia, confinanti con il Sannio.
Non ho la competenza enologica per fare valutazioni definitive, anche perché un conto sono 160, 200 aziende che si dedicano al monovitigno altro sono due o tre che invece restano ferme allo schema di partenza, ma sicuramente sul fronte dell’immagine e dell’impatto senza i monovitigni la Campania non sarebbe mai emersa con autorità. Sarebbe stato uno dei tanti territori indistinti del Centro-Sud in cui si produce vino, affidando l’interesse alla capacità del marchio di affermarsi.
Per inciso, Torre Gaia non ha deviato da questa linea se non con il Piedirosso Gaurum che a mio giudizio resta il miglior rosso aziendale per immediatezza e bevibilità. Diverso è il discorso sui bianchi, invece, sempre autoctoni e in purezza (tranne che nella Solopaca doc) a dimostrazione della naturale vocazione bianchista regionale.
Aia Vecchia ha dettato la storia dell’azienda, le annate 1990 e 1992, molto buone, furono prodotte in un momento in cui la splendida proprietà di campagna della famiglia Perlingieri era stata acquistata da una banca sul modello Mps-Fontanafredda.
Un gruppo di lungimiranti imprenditori locali l’ha rilevata e ristrutturata come resort creando ampi spazi e offrendo anche l’occasione per molte manifestazioni di rilievo, tra cui ricordo la prima riunione preparatoria della guida Vini Buoni d’Italia al Sud e una presentazione con Gino Veronelli poco prima della sua scomparsa. L’azienda ha 110 ettari di cui quasi 90 vitati interamente raccolti attorno a una sorta di borgo con la villa, la cantina, il capannone per lo stoccaggio, ben visibile quando si percorre la Fondovalle Isclero tra Caserta e Telese.
Sugli scaffali quelle annate stavano a 8000 lire circa, ed erano vecchie come i Taurasi che già allora viaggiavano sulle 15.000 lire. Insieme alla Riserva della Cantina del Taburno, era la risposta rossa del Sannio all’ascesa dell’Irpinia.
Riprovare adesso questa 2000 mi ha riportato indietro nel tempo, pensare come lo sviluppo della filiera sia stato fortuito e al tempo stesso difficile e non scontato.
Poi, bevendo l’Aia Vecchia, penso anche che ci sono dei motivi gustativi precisi per cui questo è avvenuto perché in effetti la funzione del blend in quell’epoca, ancora oggi in Italia è sostanzialmente così, era vista come possibilità di rendere pronto il vino il più presto possibile.
E in effetti questo rosso, dopo dieci anni, complice anche il tappo già bevuto perché non di grande qualità (segno che non si pensava all’invecchiamento) si presenta morbido, senza spigolature, senza tensione dinamica capace di spingerlo sulla lingua. Viene salvato soprattutto dalla sapidità in bocca e al naso dai sentori terziari, cuoio uber alles, che lo sottraggono a motivazioni dolci.
Un vino un po’ polveroso, insomma, in stile anni ’80 quando non c’era concentrazione in vigna o in cantina come dimostrano i 13,5 gradi alcol di una annata calda con vigne ad appena cento metri di altezza.
Diversa l’energia dei Taurasi della stessa annata, pur ricchi di problemi materici come abbiamo spesso scritto.
Aia Vecchia è dunque un vino del benessere campagnolo, da spendere su un abbuoto in compagnia di amici. Da aprire senza aspettare oltre perché questo vino è atteso non più da evoluzione bensì dalle prime carezze dell’ossidazione oltre che dal precipitare di residui già presenti che lo intorbidano stancandone il colore.
E un vino verso il quale ho tanto affetto, mi ricorda le prime scorribande nel Sannio.
Ma sono anche molto contento che in Campania il blend Aglianico/Montepulciano non abbia fatto altri proseliti: non c’è margine per il sogno e l’emozione. Nè agli appassionati di Aglianico, tanto meno a quelli di Montepulciano ai quali consiglio di riversarsi sulle eccellenze dell’Adriatico.
Sede a Dugenta, via Bosco Cupo 1. Tel. 0824.978172. www.torre-gaia.com Enologo: Alberto Cecere. Ettari: 113 di cui 80 vitati. Bottiglie prodotte: 600.000. Vitigni: aglianico, piedirosso, sangiovese, montepulciano, merlot, falanghina, asprinio, fiano, greco, coda di volpe.