Abbuoto 2022 Tomei: vino sorprendente da un vitigno sconosciuto del Lazio
di Raffaele Mosca
I problemi principali del vino laziale sono due: da un lato ristoratori ed enotecari della Capitale e dei suoi dintorni preferiscono le etichette regionali da battaglia a quelle degne di nota e propongono quasi sempre vini di altre zone a chi ha qualche euro in più da spendere. Dall’altro molti produttori tendono ad inseguire le mode in maniera un po’ maldestra, oscillando tra uno stile ultra-tecnico e smaccatamente internazionale e la ricerca dell’ortodossia non interventista a tutti i costi, che può provocare difetti organolettici.
Chiaramente esistono eccezioni encomiabili: per esempio quella dei Fratelli Mori sul lato ristoratori e dell’azienda Tomei di Sezze sul fronte aziende. I primi, nella loro trattoria popolare del quartiere Ostiense, danno molto spazio ai vini laziali a tiratura limitata; con i secondi ho meno familiarità, ma dall’ultima bottiglia stappata posso dire che, a fronte di un approccio che sembrerebbe strizzare l’occhio alle tendenze del momento, tra certificazione biodinamica Demeter e Vinnatur e anfore decantate in etichetta, riescono a proporre un vino non troppo stilizzato, anzi lodevole per pulizia e fluidità di beva.
L’Abbuoto è forse l’unica varietà non solo nel Lazio, ma in tutto il centro Italia, ad essere documentata con lo stesso nome da molti secoli (se non addirittura dai tempi dei Romani). Pare che fosse utilizzata per produrre il Cecubo, uno dei grandi vini del passato insieme al Falernum della vicina Terra di Lavoro. Ha vissuto un lungo periodo di declino, interrotto solo negli ultimi anni da un manipolo di aziende che, partendo da selezione massali dai vecchi vigneti dei contadini, hanno cominciato a propagarlo di nuovo. La famiglia Tomei ha iniziato a vinificarlo nel 2017.
L’Abbuoto 2022 ha un colore cupo, fitto, e un naso sanguigno, con un incipit ematico quasi in stile Sangiovese, seguito da mirtilli terrosi e qualche cenno pepato e di china. Ma è al palato che dà il meglio di sé, con un frutto scuro ma di succosità e purezza sorprendenti, abbinato a un tannino preciso, mediamente incisivo, e ritorni salini e di arancia amara che invogliano al riassaggio. Se si riesce ad arrivare a questi livelli di equilibrio dopo appena cinque anni e con una vinificazione molto “spontanea” vuol dire che c’è del potenziale vero. E, in effetti, il guru dei vitigni autoctoni Ian d’Agata sostiene nella sua bibbia che l’Abbuoto sia un vitigno di serie A. Francamente gli indizi sono ancora troppo pochi per averne la certezza, ma questa versione sembra dargli ragione!