Tipicità e globalizzazione


Convocazione dell’Assemblea delle Biodiversità del Mezzogiorno

Secondo voi cosa è più pericoloso per la sopravvivenza delle 45 specie di fagioli nel Parco Nazionale del Cilento? I fagioli borlotti in scatola o i fagioli di Controne?
E per la sopravvivenza del Piedirosso? Il Cabernet Sauvignon o l’Aglianico?
Da un punto di vista commerciale globale, immediato, sicuramente le 45 specie e il Piedirosso hanno da temere maggiormente dai borlotti e dal Cabernet, ma sul piano ideologico, di prospettiva, la concorrenza della tipicità citate è di gran lunga più insidiosa e determinante.
Il motivo è almeno duplice. Il primo aspetto da considerare è il dato che da almeno dieci anni gli enti pubblici non hanno molte altre idee di sviluppo e promozione del territorio se non quelle pescate nella filiera enogastronomica: ecco così il fiorire di sagre, sagrette, degustazioni sui prodotti tipici, spesso ridotti a uno solo che identifica e banalizza il territorio, spesso concluse con qualche mini-marchetta del volto televisivo in auge nel momento, la pereta stelliata del momento, il taglio del nastro, il solito convegno tanto costoso quanto inutile dove l’abbuffata dei coglioni anticipa quella della panza.
L’investimento unidirezionale dei soldi pubblici e dei fondi europei spinge però l’attenzione degli operatori, e anche degli appassionati, solo su un solo prodotto, diciamo tanto per fare un esempio astratto, il cipollotto di Nocera nell’agro vesuviano piuttosto che la melanzana di Rotonda.
Il secondo motivo nasce dalla semplificazione del messaggio per cui chi osteggia l’omologazione del gusto e il processo di globalizzazione gastronomica trova scudo più facile e immediato nella forza di uno o due tipicità per fermarlo: diciamo il Fiano piuttosto che lo Chardonnay, il pomodorino del piennolo piuttosto che il Roma.
Il rischio culturale di questo atteggiamento è quello di rispondere con una semplificazione ad una semplificazione con l’ottenimento dello stesso risultato: la distruzione della biodiversità. Chè è noto il processo imitativo delle campagne, restie alle novità e rapide nel cambiamento appena il vicino inizia a fare reddito con un prodotto o una tecnica diversa.
L’identificazione è sempre un processo di banalizzazione che spinge poi ai paradossi della realtà per cui un tappo moretto come HItler fu l’alfiere del biondismo gigantico ariano. L’identificazione in un solo prodotto favorisce certamente il messaggio in bottiglia, diciamo il lardo di Colonnata, ma uccide la ricchezza culturale. Ed è, a conti fatti, il problema di fondo più grave con cui siamo alle prese in Occidente dove il sapere delle varietà lascia la massa per rifugiarsi in circoli snob, musei, coltivatori pazzi, proprio come la cultura dovette entrare in monastero per evitare l’estinzione dopo la caduta di Roma.
In questi ultimi tre anni Fiano e Aglianico stanno maciullando decine di vitigni autoctoni e biodiversità vegetative, azzerando la sapienza secolare dei blend in vigna dei contadini, con dei risultati spesso a dir poco discutibili. Un po’ come è accaduto con il nebbiolo in Langa.
Mi chiedo ad esempio perché nel Casertano li si stia introducendo con tanta forza mentre si sta lasciando morire l’Asprinio, il vino campano di cui più si è scritto in passato.
La vera risposta all’omologazione di una paese dominante come gli Stati Uniti non è certo l’omologazione territoriale di nicchia, ma la promozione di uno sviluppo equilibrato tra le diverse colture. Come la risposta vincente al terrorismo industriale di Bush non poteva essere il terrorismo artigianale dei Kamikaze.
In poche parole, la salubrità della terra e il futuro commerciale agricolto non sono mai affidati ad una monovarietà, sia pure autoctona, al posto di un’altra alloctona.
Su questi temi organizzeremo come sito la grande convention ad aprile 2010: l’Assemblea della Biodiversità nel Mezzogiorno.